La Cina prende il largo

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Il Gotha della produzione giapponese ha deciso ieri di chiudere, almeno fino a mercoledì, fabbriche e negozi in Cina mentre ai connazionali nipponici è stato raccomandato di non farsi vedere troppo in giro. Tutto questo dopo un week end di fuoco segnato da proteste anti-giapponesi in oltre 50 città  cinesi, le più violente e vaste mai registrate da quando il Giappone ha ristabilito rapporti diplomatici con la Cina, nel 1972. Manifestazioni di decine di migliaia di persone contro le sedi diplomatiche, con lancio di uova e bottiglie piene d’acqua, assalti alle concessionarie automobilistiche nipponiche, auto rovesciate e date alle fiamme, attacchi a ristoranti, negozi e supermercati.
Intanto una flottiglia di mille pescherecci cinesi si prepara a partire alla volta delle isole Diaoyu-Senkako, al largo delle quali già  si trovano sei navi vedetta della marina cinese, inviate nei giorni scorsi a sorvegliare la situazione. Il divieto di pesca che fino a pochi giorni fa impediva di operare nell’area è stato tolto da Pechino e i pescatori non hanno intenzione di perdere l’occasione di volgere a proprio vantaggio economico, oltre che patriottico, la situazione. Incidenti più o meno gravi tra guardia coste giapponesi e pescherecci cinesi hanno già  in passato alzato la tensione. Il minuscolo arcipelago conteso ha riattizzato un fuoco mai spento dopo la decisione di Tokyo di acquistare tre isole di quei 7 km quadrati di scogli disabitati da un privato giapponese che ne era proprietario. Uno strappo allo status quo che Pechino non intende digerire perché «neppure un pollice di territorio», com’è stato scritto in un editoriale del Quotidiano del popolo, deve essere proditoriamente sottratto all’integrità  della Repubblica popolare. Rivendicazione pienamente condivisa dai cinesi scesi in piazza e bloccati dalla polizia a colpi di lacrimogeni e getti di idranti solo quando saccheggi e violenze hanno passato i limiti. L’ironia terribile della storia vuole che proprio oggi cada l’81esimo anniversario dell’«incidente di Mukden» quando le truppe giapponesi fecero saltare un tratto di ferrovia in un territorio sotto il loro controllo, presso Shenyang, dando la colpa ai cinesi, un pretesto per invadere la Cina e dare il via a una guerra feroce durata 14 anni. Ancora oggi si prevedono dunque manifestazioni, anche se il governo ha cominciato a tirare le redini su proteste che, presumibilmente incoraggiate o per nulla osteggiate all’inizio, hanno cominciato di fatto a tracimare, come spesso accaduto in circostanze simili. In alcune dimostrazioni sono state issate immagini di Mao, in altre si sono sentiti persino slogan a sostegno di Bo Xilai, l’ex astro nascente della politica cinese caduto in disgrazia rovinosa. A Guangzhou e Shenzhen sono anche comparsi, secondo il South China Morning Post, striscioni che chiedevano riforme politiche e più democrazia.
Da Tokyo, il premier giapponese Yoshihiko Noda, ha esortato Pechino ad assicurare la protezione dei cittadini e dei beni giapponesi. Nelle stesse ore si trovava in visita ufficiale in Giappone il segretario della Difesa americano. Leon Panetta ha dichiarato che gli Stati uniti rispetteranno gli obblighi sottoscritti con Tokyo attraverso i trattati ma che nella contesa in corso non parteggiano per nessuno. Intanto però, in quelle stesse ore Usa e Giappone hanno firmato un importante accordo per installare sul territorio giapponese un secondo sistema avanzato di difesa anti missile. L’annuncio dato ieri ha alimentato vieppiù la tensione, anche se Panetta si è affrettato a dichiarare che il sistema radar è difensivo ed è orientato contro la Corea del nord non contro la Cina. Ma vista da Pechino (come riportava ieri il New York Times) la mossa è un segnale negativo che rafforzerà  il Giappone e lo spingerà  a un atteggiamento più intransigente nei confronti delle rivendicazioni territoriali cinesi, Diaoyu-Senkaku comprese. Oltre a essere un’ulteriore escalation del ruolo di «pivot» che gli Usa si sono assegnati in questa fase di tensioni asiatiche. Di tutto questo il segretario alla Difesa Usa, che domani sarà  a Pechino, parlerà  di certo con il redivivo Xi Jinping, che in autunno diventerà  il nuovo capo della leadership cinese.
La violenta disputa in corso è in verità  anche il frutto delle tensioni accumulate nell’area da almeno un paio di anni; da quando cioè a governare il Giappone sono arrivati personaggi politici più aggressivi sul piano diplomatico, e quest’ultima fiammata spinge da qualche giorno la parte cinese a prefigurare i danni economici che ne potrebbero derivare. Ieri due editoriali separati, uno dell’edizione per l’estero del Quotidiano del Popolo e uno sul China Daily, hanno adombrato la minaccia di sanzioni economiche che, secondo i commenti, colpirebbero soprattutto il Giappone. Un brivido ha percorso le schiene dei commentatori economici e finanziari alla sola idea. Gli scambi commerciali tra i due paesi ammontavano nel 2011 a 345 miliardi di dollari. Il Giappone è il secondo partner commerciale cinese, dopo gli Usa, e ne rappresenta il 9% degli scambi. Più di tutti i cosiddetti Brics – Brasile, India, Russia e Sudafrica – messi insieme. Mentre la Cina costituisce il 21% dell’import export del Giappone (laddove la percentuale degli Usa è il 12%). Quanto agli investimenti diretti, se quelli cinesi in Giappone sono risibili (560 milioni di dollari nel 2011) quelli inversi nel 2011 sono stati di oltre 12 miliardi di dollari. Senza contare che, come notava ieri il Wall Street Journal, i danni di una guerra commerciale sino-giapponese si diffonderebbero ben oltre le due potenze per via di quelle innumerevoli componenti dei prodotti high tech assemblati in Cina che vanno avanti indietro tra le due sponde e che però vengono forniti da compagnie di mezzo mondo. In un momento di crisi globale come questo, un terremoto per tutti.


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