Dal basket a Moby Dick Obama e l’ossessione di essere il più bravo

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  Barack Obama ama vincere. Che giochi a basketball, a bigliardo o a golf, il presidente è ossessionato dalla necessità  di dimostrare di essere il più bravo. E quando non è all’altezza, gli è successo col bowling, si allena in segreto per migliorare le prestazioni. «La sua filosofia — ha detto al New York Times il suo migliore amico, Marty Nesbitt — è che qualunque cosa faccia, cerca di farla al massimo delle sue possibilità ».

La politica non fa eccezione. Nessun collaboratore lo ha mai visto andare impreparato a un meeting nella West Wing. E quanto all’autostima, rimangono scritte nel marmo le parole che disse al suo direttore politico, appena assunto, all’inizio della campagna elettorale del 2008: «Penso di saper scrivere i discorsi meglio dei miei speechwriter. So su ogni specifico dossier più di quanto sappiano i miei esperti. E ti dico anche che penso di essere un direttore politico migliore del mio direttore politico».
C’è una qualità  molto americana in quest’ansia di perfezionismo. Che in Obama appare a volte così esasperata da tracimare nell’autocompiacimento e nella sopravvalutazione delle proprie capacità . Per gli avversari, è naturale parlare di arroganza.
Sia come sia, la campagna elettorale sta mettendo a dura prova la fiducia in se stesso del presidente, che non è mai riuscito, tranne alcuni brevi momenti, a staccare lo sfidante repubblicano e ora deve lottare fino all’ultimo voto per essere rieletto.
Pochi presidenti sono stati vivisezionati, analizzati, raccontati e giudicati in corso d’opera, come il primo afroamericano che occupa lo Studio Ovale. Conciliatore, guidato dal mito del consenso. Cool. Pragmatico. Distaccato. Professorale. Impassibile. Elitario. Emotivamente freddo. E ognuna di queste conclusioni contiene sicuramente uno o più grani di verità .
Ma come si conciliano le abitudini, le preferenze, i tratti caratteriali di Barack Hussein Obama con l’America che vuole ancora credere in lui? Quanto è rappresentativo di una delle due antropologie, quella della speranza e della promessa, che si confrontano in un’elezione, altrimenti segnata dalla crisi economica e quindi in partenza proibitiva per qualsiasi presidente in carica?
Chi dice che Obama incarni l’America sofisticata e un po’ «fighetta», concentrata sulle due coste e nelle grandi aree metropolitane, trascura la complessità  del suo richiamo. Perché sarà  anche vero che le prediche culinarie e dietetiche biologico-chic di Michelle, lancia in resta nella guerra all’obesità , vadano contro le indigeste abitudini del Paese profondo. Ma è anche vero che Obama predilige il chili con carne, forse il cibo più simbolico dell’America dove la crescita esponenziale della comunità  ispanica sta cambiando per sempre l’equilibrio demografico.
Certo i libri preferiti di Barack Obama, vorace lettore, sono in genere meno semplici di quelli di Mitt Romney. Il saggio di Ralph Waldo Emerson «Self-Reliance», «Moby Dick» di Hermann Melville, il «Canto di Salomone» di Toni Morrison, le tragedie di Shakespeare, ma anche i libri di Harry Potter che giura di aver letto tutti. Ma qui Obama ha un doppio problema: far sapere che lui è pienamente dentro la tradizione intellettuale americana (Melville e Emerson) ma anche legato alla storia della gente di colore. Il libro del premio Nobel, l’epopea di un ragazzo nero nel Michigan segregato degli anni Sessanta, è stato il romanzo di formazione per gli afroamericani della sua generazione. C’è anzi, in questa preferenza letteraria, tutto lo sforzo titanico che ne attraversa la presidenza: quello di conciliare le speranze suscitate dalla sua elezione nella comunità  nera e nelle altre minoranze, con quelle del Paese nel suo complesso. «Obama — dice Deval Patrick, primo governatore afroamericano del Massachusetts e grande amico del presidente — è molto determinato a essere il presidente di tutti». Il che lo ha messo in rotta di collisione con molti leader della comunità  nera, che gli rimproverano di non fare abbastanza, in un contesto elettorale mai così etnicamente polarizzato: Mitt Romney ha 23 punti di vantaggio su Obama tra gli elettori bianchi (McCain nel 2008 ne aveva solo 8) mentre questi ha il sostegno del 79% di tutti quelli non bianchi.
Anche l’iPod presidenziale riflette la sintonia con l’America meticcia e multietnica, giovane e metropolitana, colta e liberal, che lo vuole ancora alla Casa Bianca: «Ho tutta la vecchia scuola — ha raccontato —, Stevie Wonder, James Brown, Rolling Stones, Earth Wind & Fire, Bob Dylan. E poi ancora di tutto, da Jay-Z a Eminem, dai Fugees ai Coldplay». Per i più esoterici, ci sono anche Miles Davis, John Coltrane e Johann Sebastian Bach. Nessun accenno a Bruce Springsteen, ma probabilmente è solo dimenticanza, visto che il Boss è attivamente impegnato nella campagna per la sua rielezione. Con buona pace di chi dice che l’America operaia, di cui Springsteen è cantore e idolo, è tutta dalla parte di Romney.
C’è un misto sentimentale e trasgressivo nei gusti cinematografici di Obama, il quale indica senza esitazione in «Casablanca» e «Qualcuno volò sul nido del cuculo» i suoi due film preferiti. Ma nulla lo rilassa la sera, quando Michelle e le figlie sono già  a letto, più di una partita di basket della Nba in televisione.
Le critiche rivoltegli più di frequente sono il distacco, la condiscendenza professorale, l’apparente mancanza d’entusiasmo per i riti fisici della politica. Invero il presidente numero 44 non ha legato con Washington; non frequenta i salotti; non invita alla Casa Bianca tranne nelle occasioni ufficiali; non si lavora i congressisti democratici né repubblicani invitandoli al golf dove continua a giocare sempre con lo stesso gruppetto di fedelissimi; non ama i bagni di folla che deliziavano e deliziano Bill Clinton. È un political loner, un politico solitario, come ha spiegato in un bel libro Scott Wilson del Washington Post. In effetti la vita sociale di Obama è circoscritta al drappello degli amici di sempre, i Nesbitt, i Whittaker, i Davis, Valerie Jarrett.
Il punto è che Barack Obama privilegia le politiche sulle persone. E se sarà  rieletto, aspettiamoci che porti a termine l’incompiuta della riforma sanitaria e delle regole per Wall Street, investa nell’educazione e nelle infrastrutture, affronti il deficit anche ma non solo aumentando le tasse sui più ricchi, risponda finalmente alle domande della comunità  ispanica (che sarà  stata decisiva per la sua vittoria) con una nuova legge sull’immigrazione. Insomma, estenda la storia del primo presidente afroamericano, che non avrà  guarito i mali del mondo, ma avrà  preparato l’America della modernità .


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