La preoccupazione dei partiti per i «paletti» del Quirinale

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Si aspettavano un messaggio di Napolitano, ma non quel tipo di messaggio. E se la forma tiene al riparo il rapporto dei partiti con il Colle, non riesce a nascondere la tensione sulla legge elettorale.
Tutti i partiti si sono risentiti per le parole di Napolitano, siccome tutti si sono sentiti a vario titolo criticati per le scelte adottate nella riforma del Porcellum. C’è soprattutto una questione, la più delicata, che alimenta il nervosismo delle forze politiche. Perché sarà  pur vero — come dice Schifani — che «senza lo stimolo del presidente della Repubblica non si sarebbe avuto alcun risultato», e il Senato difficilmente avrebbe approvato il testo base del provvedimento. Però le indicazioni circostanziate del Quirinale sugli snodi fondamentali della legge sono state interpretate come un tentativo di indirizzare la riforma.
Ce n’è per tutti e tutti a loro modo se ne dolgono. In un passaggio della missiva inviata da Napolitano al presidente del Senato, il Pd legge l’altolà  del Colle al premio di coalizione. In un altro paragrafo l’Udc riconosce l’avversione del capo dello Stato alle preferenze. Dall’insieme della lettera Berlusconi ne ricava che il plauso del presidente della Repubblica per l’avvio dei lavori a Palazzo Madama è una minaccia verso chi pensasse di sabotare la riforma per tenersi il Porcellum.
Così l’idea di un Parlamento che legifera sotto dettatura finisce per essere rifiutata in modo bipartisan. Ma siccome è impossibile dire pubblicamente ciò che si fatica a dire sottovoce, ognuno formula le proprie obiezioni scegliendo vie oblique, e un po’ dissimulando. Per difendere il premio alla coalizione, per esempio, il democratico Franceschini si mette a cinguettare sulla Rete, e in una dichiarazione sulla legge di Stabilità  ricorda come «in Italia il potere legislativo è ancora del Parlamento». Il capogruppo del Pd non è al primo tweet sull’argomento, se è vero che giorni fa ne aveva lanciato uno simile: «Volere un Monti-bis è legittimo. Volere una legge elettorale che renda inevitabile un Monti-bis, è folle». Ancora un tweet e si avrà  la prova che il destinatario dei suoi messaggi risiede al Quirinale.
D’altronde non è di oggi il braccio di ferro tra il Colle e l’ala bersaniana del Pd sulla prospettiva di un governo delle larghe intese dopo il voto. Per non infrangere il galateo istituzionale, il segretario del Pd ha adottato un escamotage copiato poi da Casini. Ed è così che i leader di partito si sono messi a commentare solo alcuni brani della lettera di Napolitano. Bersani ha rivolto un plauso al presidente della Repubblica che chiede di procedere nelle aule parlamentari. Il capo dell’Udc invece ha fatto proprio l’argomento del premio di maggioranza per sorvolare sulle critiche alle preferenze.
La legge elettorale è la ragion d’essere dei partiti, una sfera di competenza che considerano esclusiva. Ma con il Quirinale tutti cercano di correre al riparo. I centristi sono pronti a rispondere alle obiezioni sulle preferenze con un emendamento alla riforma in cui verrà  fissato un tetto di spesa per i candidati in base al numero di elettori: un meccanismo di trasparenza rigido a tal punto da prevedere la decadenza automatica per quei parlamentari che lo violeranno. Ma non intendono cedere sulla norma a loro tanto cara. Anche perché sulle preferenze si era raggiunta un’intesa con il Pd, «eravate d’accordo», ha detto ieri Cesa a un esponente democratico. Il segretario dell’Udc è uno degli sherpa della riforma, «c’ero io seduto insieme al vostro Migliavacca. Perciò se non la smettete di spararci contro, abbassiamo il premio di maggioranza». Sorrideva Cesa, chissà  se scherzava.
Il punto è che il compromesso tra i partiti sulla riforma della legge elettorale poggia su basi fragili, e la lettera di Napolitano rischia di sgretolarne le fondamenta. Ognuno infatti sta facendo il proprio gioco, anche Berlusconi. C’è la sua manina dietro quelle dei 40 deputati del Pdl che si sono schierati contro le preferenze: è un’opera di sabotaggio al patto che rivela il desiderio del Cavaliere di tenersi il Porcellum, se non ci fosse l’intesa per il rassemblement dei moderati.
È un espediente che ha indotto tre giorni fa Gianni Letta a mettere l’ex premier sull’avviso: «Silvio, dovremmo poi tenere in conto la reazione del Quirinale». È stato illustrato uno scenario da conflitto istituzionale: prima un messaggio alle Camere del capo dello Stato, poi addirittura il rischio di una legge elettorale redatta dal governo per decreto. Berlusconi ritiene si tratti di un’arma scarica, «non può arrivare a questo», e ieri — dopo aver inteso il messaggio in codice di Napolitano — ha risposto inneggiando al presidenzialismo: «Almeno adegueremmo la Costituzione formale a quella materiale».
Tutti hanno tentato di rispondere al capo dello Stato cercando quantomeno di salvare la forma. Tutti in fondo si lamentano di quella lettera, che conteneva una postilla non esplicitata. Perché i partiti confidavano che il Colle avrebbe accolto la loro richiesta di anticipare a metà  marzo le elezioni, per affidare a Napolitano il compito di assegnare l’incarico al prossimo presidente del Consiglio. Ma Napolitano ha detto definitivamente no, appuntandosi sul calendario il sette aprile. Così il primo atto della legislatura sarà  l’elezione del nuovo capo dello Stato.


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