L’ASSENZA DELL’EUROPA

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Cinquanta milioni di americani hanno seguito la diretta tv (con frequenti “zapping” in favore delle concomitanti partite di football e baseball) e ne hanno ricavato una certa idea del mondo. Visto dagli Stati Uniti, è un pianeta semplificato. Da una parte c’è la Cina, potenza rivale, “concorrente sleale” per ambedue i contendenti. Bisogna costringerla a rispettare le regole anche se nessuno ha spiegato esattamente come. Dall’altra parte c’è un Medio Oriente “extra- large” che si espande dalla Libia al Pakistan: da lì vengono tutte le minacce alla sicurezza degli americani. L’Iran è stato citato 45 volte, Israele e Cina più di 30 volte ciascuno, l’Afghanistan 29 volte. Perfino il Mali ha avuto diritto a quattro citazioni. E noi? Il presidente in carica ha frettolosamente evocato l’Europa in un elenco di alleati. La parola Nato non è stata pronunciata. A tempo quasi scaduto, Romney si è ricordato che gli era rimasta una battuta inutilizzata. Nel pistolotto finale ha detto che una volta alla Casa Bianca lui impedirà  all’America di “fare la fine della Grecia”. Ecco, l’Europa andava citata come paradigma negativo, per ricordare agli elettori la brutta fine che li attende, se mai dovessero riconfermare uno “statalista” come Obama.
C’è di che sentirsi sminuiti. 90 minuti di dibattito senza un’allusione a noi sono la conferma del nostro declino, della nostra marginalità  e irrilevanza? Il New York Times ricorda, per fortuna, che i due hanno ignorato ben altri temi di sicura importanza per il futuro dell’America e dell’umanità : il cambiamento climatico non ha avuto la minima attenzione. E’ una consolazione? I francesi, che hanno ancora scorte di orgoglio nazionale, sono i primi a reagire piccati. “L’Europa è in gara con l’Australia per lo status del continente più dimenticato”, lamenta il quotidiano parigino Libération.In realtà  il silenzio di ieri è perfino un progresso, rispetto ai toni usati nella campagna elettorale fino a poche settimane fa. Più volte Romney aveva accusato Obama di trasformare gli Stati Uniti in una “società  assistita, dove la gente si aspetta aiuti dallo Stato, come l’Europa”. Nei suoi comizi il modello negativo non era solo la Grecia; Spagna e Italia venivano evocate come nazioni in bancarotta. La poca attenzione nel dibattito finale è la conseguenza di un cessato allarme. Da qualche settimana Wall Street ha smesso di scendere per colpa dei sussulti da default dell’eurozona. Ora l’indice Dow Jones scende perché i profitti delle imprese Usa vanno a picco. “No news, good news”: meglio se i debiti sovrani di Roma e Madrid sono finiti nella zona d’ombra, sugli schermi radar degli hedge fund.
Un conforto più sostanziale viene da Anne-Marie Slaughter, brillante esperta di geostrategia all’università  di Princeton, già  braccio destro di Hillary Clinton al Dipartimento di Stato. La Slaughter dà  tutta la colpa al “narcisismo americano”. Spiega che “il dibattito non era veramente sulla situazione mondiale o sulla politica estera, i riferimenti a Israele servivano a guadagnare voti in Florida; gli attacchi alla Cina erano rivolti ai colletti blu dell’Ohio”. Ogni battuta era stata calcolata in anticipo per il suo impatto sugli ultimi elettori indecisi, in un pugno di Stati ancora in bilico fra i due candidati. Se è così il vero allarme non riguarda il declino europeo bensì il provincialismo di gran parte della popolazione americana. Soprattutto quella che vota a destra, in verità . Non foss’altro che per la sua distribuzione geografica e composizione etnica: Romney deve la propria forza a quella nazione che non vive nelle grandi città  del “melting pot” multirazziale, che sta lontana dalle due coste. In questa contesa elettorale, tra i repubblicani è tornata a imperversare la parola d’ordine dell’American Exceptionalism. Una parola intraducibile in altre lingue. Come si fa a dire “eccezionalismo”? Eppure di quell’idea si vedono tracce ogni giorno, per esempio nei modelli di consumo più energivori del pianeta. E in una presunta discussione di “politica estera” ad altissimo livello, dove si è potuto parlare di gravi conflitti in Medio Oriente senza mai chiamare in causa settant’anni di sviluppo petrolio-centrico.


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