USA, la dittatura dell’1%

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«I cinquantamila dipendenti e collaboratori del nostro gruppo possono soffrire le conseguenze, se vince un candidato che vuole imporre altre regole al business». Così recita la lettera inviata dai fratelli David e Charles Koch a tutti i loro dipendenti. E si conclude con l’invito a votare per Mitt Romney. La famiglia Koch, a capo di un vasto conglomerato petrolchimico, controlla la seconda maggiore fortuna privata degli Stati Uniti. Le sue simpatie di destra sono note, ma è la prima volta che i Koch “diffidano” così apertamente i propri dipendenti dal votare democratico. Non sono i soli. L’America «dell’un per cento», come la definì il celebre slogan di Occupy Wall Street, si è mobilitata per far vincere il suo candidato. E’ la riscossa dell’oligarchia, che non accetta responsabilità  per questa crisi e vuole consolidare i suoi privilegi. Altri imprenditori David Siegel, che controlla il colosso della multiproprietà  edilizia Westgate (Florida), ha annunciato pubblicamente con un’intervista al magazine
Forbes che se vince Barack Obama il 6 novembre lui potrebbe «chiudere l’azienda e licenziare tutti i settemila dipendenti».
Richard Laks, chief executive di Lacks Enterprises (Michigan), ha scritto ai suoi dipendenti di votare per Romney «altrimenti sono in arrivo nuove tasse e per voi prevedo stipendi più bassi». Il gruppo Murray Energy che possiede miniere di carbone nell’Ohio ha messo centinaia di dipendenti a “riposo obbligato” con l’ordine di andare a un comizio di Romney.
La crema dell’un per cento (ma sarebbe più preciso parlare dello 0,01%) si è data appuntamento in queste ore all’hotel Waldorf Astoria di New York. Per i Vip è in corso un “ritiro di tre giorni”, con una missione: accelerare la raccolta fondi a favore del partito repubblicano e di tutti i suoi candidati, per la Casa Bianca e per il Congresso. Il
New York Times lo definisce «un esperimento senza precedenti, per contrastare la superiorità  di Obama nella raccolta di piccole donazioni individuali, e consentire a Romney di lanciare il bombardamento finale degli spot tv». La mobilitazione dei ricchi ha già  iniziato a dare i suoi frutti: 170 milioni di dollari di raccolta per Romney solo a settembre, prevalentemente da un pugno di miliardari. Il “ritiro” al Waldorf Astoria segue una serie di cene private dove la soglia minima era di 50.000 dollari. Tra i grandi nomi che appaiono nell’hotel sulla Park Avenue di Manhattan ci sono il finanziere Charles Schwab e il fondatore di Sun Microsystems Scott McNealy.
L’offensiva degli straricchi può indurre a pensare che si sentano minacciati: come se una rielezione di Obama fosse il preludio a stangate fiscali simili a quella varata a Parigi da Franà§ois Hollande. E invece no. In America l’un per cento rischia poco. E non è mai stato così bene. Nel primo biennio dopo la grande crisi del 2008, “loro” si sono ripresi subito, e alla grande: gli economisti Emmanuel Saez e Thomas Piketty calcolano che «il 93% dei guadagni della ripresa sono andati all’1% dei più ricchi». Conviene spingere lo sguardo ancora più su, verso quelli che affollano il Waldorf Astoria per riempire le casse elettorali di Romney: coloro che hanno redditi annui sopra i 4 milioni di dollari, e cioè lo 0,01% degli americani, hanno sequestrato il 37% di tutti i benefici della mini-ripresa in corso.
Non c’è nessuna stangata fiscale in arrivo su di loro, se si eccettua la modesta proposta della Buffett Tax fatta propria da Obama. La Buffett Tax prende il nome dal più illuminato dei membri dello 0,01%, un miliardario che trova eccessivi e controproducenti i privilegi di cui gode. Warren Buffett, che contende a Bill Gates il primato della ricchezza nella Top List dei Paperoni, si è vergognato «di pagare un’aliquota fiscale inferiore alla mia segretaria». Lui, proprio come il multimilionario Romney, è beneficiato dal prelievo sui capital gain (plusvalenze finanziarie), appena il 15%. D’accordo con Bill Gates, ha lanciato l’idea di arrivare al 35% d’imposta sui redditi milionari, equiparandoli così alle tasse sul ceto medio. Esproprio? Siamo ben lungi da quel che Hollande vuole prelevare sui grandi patrimoni francesi. La direttrice di
Thomson Reuters Digital, Chrystia Freeland, ricorda che «negli anni Cinquanta (sotto un presidente repubblicano come Dwight Eisenhower) il prelievo marginale sui più ricchi arrivava al 90%, un livello che oggi spaventerebbe anche i democratici. Ai nostri tempi invece sui 400 americani più ricchi, 6 hanno pagato zero tasse, 27 hanno versato al fisco meno del 10%, e nessuno ha pagato più del 35%».
The Economist ha dedicato un’inchiesta a questo aumento delle diseguaglianze: «La parte del reddito nazionale che va all’un per cento si è raddoppiata rispetto agli anni Ottanta. Ma ancora più sconcertante è la quota appropriata dallo 0,01%, cioè le 16.000 famiglie che hanno reddito annuo superiore ai 24 milioni. La loro fetta della torta si è quadruplicata». Non è un caso se il primo segnale di “ripresa” avvertito dagli specialisti è stato il boom di acquisti di penthouse (superattici) sopra i 10 milioni di prezzo cadauno, nei quartieri di lusso di Manhattan come l’Upper East Side.
Vista la loro condizione più che fortunata, perché i superricchi d’America sono mobilitati in uno sforzo così intenso per impedire la rielezione di Obama? Il capo dei consiglieri economici della Casa Bianca, Alan Krueger, ha coniato un neologismo: «la curva del Grande Gatsby ». Serve a illustrare il parallelismo tra l’involuzione dell’America di oggi, e gli eccessi dell’Età  dell’Oro (anni Venti, prima della Grande Depressione) descritta nel romanzo di Francis Scott Fitzgerald. Due studiosi di storia economica, Daron Acemoglu e James Robinson, in un saggio recente (“Why Nations Fail”: perché falliscono le nazioni) illustrano il criterio che distingue i paesi che hanno successo da quelli che arretrano. I primi sono governati da istituzioni “inclusive”, sono società  aperte, con mobilità  dal basso e un rinnovamento continuo delle
élite. Il declino colpisce le “società  estrattive”: quelle dove una minoranza “estrae” ricchezza dal resto, per il proprio vantaggio prevalente. La transizione dall’una all’altra formula è una ricetta sicura per la decadenza. Nella storia analizzata da Acemoglu e Robinson un caso tipico fu Venezia, che nell’epoca della sua ascesa aveva promosso la “colleganza”, una forma di società  per azioni aperta a nuovi membri. Poi si formò un’oligarchia che decise “la Serrata”, un restringimento degli accessi agli outsider.
La Freeman ha lanciato nel dibattito politico americano un saggio intitolato “Plutocrati”, la cui tesi è questa: l’America sta facendo la fine di Venezia. E’ una tentazione ricorrente nella storia delle nazioni: «Le élite che hanno avuto successo grazie a un sistema inclusivo, hanno la tentazione di tirar via la scala per quelli che vengono dopo». L’economista Miles Corak trova una conferma, la mobilità  sociale negli Stati Uniti è crollata, via via che aumentavano le diseguaglianze.
Un fattore è il sistema scolastico. La scuola pubblica viene dissanguata a furia di tagli, perfino due leader democratici come Bill Clinton e Obama hanno preferito mandare le figlie in costosi istituti privati. L’istruzione, un tempo strada maestra per l’avanzamento dei ceti meno privilegiati, diventa strumento che perpetua le diseguaglianze. Il monito della Freeland: «Le società  oligarchiche entrano in stagnazione, i plutocrati minacciano lo stesso sistema che li ha creati». Ma questo riguarda l’orizzonte futuro. Al 6 novembre mancano solo venti giorni, e la scelta di modello i plutocrati l’hanno fatta: accorrendo al Waldorf Astoria.


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