Alta Velocità , i nodi irrisolti di un paesaggio mancato

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L’architettura del Mondo. Infrastrutture, mobilità , nuovi paesaggi segna la nuova stagione espositiva della Triennale di Milano presieduta da Claudio De Albertis, costruttore e ex presidente dell’Ance. Dopo un triennio di mostre altalenanti, sotto l’egida del critico Germano Celant, la Triennale cerca un lento ritorno alla normalità . Ovvero un’esposizione che renda gli obiettivi comprensibili anche se talvolta, come in questo caso, solo in parte condivisibili. Vecchio di vent’anni, il tema delle infrastrutture rappresenta per il curatore, l’architetto Alberto Ferlenga, l’occasione per dare conto dell’importanza dei sistemi di attraversamento del territorio, cui si aggiungono poi tutte le architetture inscrivibili nel termine «infrastruttura»: ponti, termovalorizzatori, dighe, passeggiate.
Con un approccio accademico-generalista l’esposizione presenta in apertura materiali storicizzati, dal plan Obus di Algeri, redatto da Le Corbusier nel ’32, ai disegni della metropolitana di Mosca, al lungofiume di Lubiana progettato da Plecnik, evitando però il progetto di unificazione dell’Italia attraverso la ferrovia realizzato da Cavour, o i progetti delle prime autostrade negli anni del fascismo. Da un lato l’intenzione di Ferlenga, supportato da Marco Biraghi, appaga il feticismo degli accademici per il documento storico, dall’altro indica la via del «ma anche è possibile realizzare infrastrutture», evitando di parlare di dissenso nei confronti della Tav, un’opera che non ha saputo dare vita a quel paesaggio tipico della ferrovia, tra appennini, litorali e città , ma ha solo unito due punti sulla carta, enfatizzando la separazione delle comunità , come dimostra la scelta di privilegiare un tracciato nord-sud, Milano-Napoli, senza un progetto globale che consideri le dorsali tirrenica e adriatica e le isole. Così la mostra è l’occasione per pubblicizzare i progetti delle stazioni Tav di Torino, Firenze, Reggio Emilia, Bologna, Napoli realizzate da Arep, Norman Foster, Santiago Calatrava, Arata Isozaki, Zaha Hadid, come obolo a Trenitalia, senza porre le criticità  che tali infrastrutture generano sul territorio.
Allo stesso modo lo spazio concesso all’autostrada enfatizza il ruolo del trasporto su gomma nella crescita economica del paese, e insieme la sua deriva. Sicuramente la sezione più interessante è quella dedicata ai progetti internazionali di ponti pedonali e stradali, stazioni ferroviarie, dighe e autostrade che evidenziano una qualità  progettuale elevata, qualità  mostrata anche da recenti recuperi dell’ex sedime ferroviario del ponente ligure, non soltanto nel progetto di Voarino/Cairo presente in mostra, ma anche nelle realizzazioni di UNA2 e Ciarlo Associati, inaspettatamente escluse. Diverso il trattamento per il Ponte sullo Stretto di Messina, a proposito del quale i progetti di Musmeci e Samonà  realizzati per il concorso del ’69 sono messi in relazione con i viadotti della Salerno-Reggio Calabria progettati, negli stessi anni, da Silvano Zorzi.
In questo coacervo di materiali eterogenei (disegni, schizzi, maquette, gli onnipresenti video), la fotografia viene usata più come strumento per raccontare l’infrastruttura, che come disciplina autonoma. Da una parte le fotografie di Luigi Ghirri, realizzate a Lubjana negli anni ’90 del Novecento vengono presentate come un corpus unico, mentre le immagini aeree di viadotti di Olivo Barbieri sono disperse tra un disegno e l’altro. Dall’altra, l’interessante ricerca di giovani fotografi che – selezionati da Marco Introini, Peppe Maisto e Alessandra Chemollo, in diversi ambiti territoriali – hanno documentato, interpretandole, le infrastrutture, è isolata dal resto, in fondo alla mostra.
Nell’ambito delle mostre di architettura la fotografia, a due secoli dalla sua invenzione, non riesce ad avere una propria autonomia disciplinare ed è considerata un mezzo per sopperire esteticamente alle mancanze dei progetti. In questo senso andrebbero ripensate le modalità  di allestimento che, negli esempi più riusciti, mirano a comunicare efficacemente i contenuti attraverso una grafica accurata e comprensibile. Spesso invece i materiali si accumulano secondo criteri da ancien régime, evitando di individuare uno strumento che esprima le teorie sottintese e sottolineando, come nel caso della mostra milanese, le ambiguità  curatoriali, che non esprimono un pensiero critico sul tema proposto.


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