La religione senza cittadinanza

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La «questione carceri» in Italia rende evidente un drammatico vulnus democratico e di diritto e il perdurare di una cultura della pena lontana dall’essere all’altezza dei migliori ideali di una civiltà  dell’umanesimo. Ma a ben guardare, il dibattito che su di essa viene tenuto vivo soprattutto dalla stampa e dai media in generale dice anche di alcuni coni d’ombra che riguardano persino quanti – individui, gruppi, associazioni – dei diritti in carcere fanno un punto costante di attenzione, riflessione critica, difficile impegno quotidiano, ragione di battaglie per una migliore qualità  della vita. All’interno della «questione carceri» e dell’emergenza che essa rappresenta – sovraffollamento, suicidi (di detenuti e agenti di sicurezza), atti di autolesionismo, corpi violati e anime cui è negato possibilità  di cambiamento e riscatto – c’è un capitolo poco o nulla indagato, poco o nulla conosciuto, poco o nulla percepito e apprezzato nella sua serietà  e significatività , rispetto alla quale anche la cultura democratica e progressista è lontana dall’avere la sensibilità  che sarebbe auspicabile.
Una tradizione confessionale
La questione in oggetto è quella del diritto alla libertà  religiosa e al culto, in un contesto multi-religioso come quello che caratterizza oramai l’universo penitenziario italiano. A fronte di un profondo mutamento della popolazione carceraria (non poco legato alle conseguenze dell’applicazione dei principi della criminologia attuariale), segnatoda un forte aumento di reclusi non italiani (su base nazionale circa il 40%) e dunque dal «pluralismo» dell’universo religioso della medesima popolazione carceraria, il sistema penitenziario italiano per ragioni storiche e culturali continua a tarare il diritto alla libertà  religiosa e al culto su un orizzonte cattolico o, ben che vada, cristiano.
Di cosa si parla? Concretamente, della possibilità  in carcere di avere colloqui con ministri di culto o rappresentanti della propria confessione, non cattolici; della possibilità  di vedere rispettati tempi di preghiera prescritti dalla propria tradizione, armonizzati con i tempi di vita del carcere; della possibilità  di avere un luogo per il culto, individuale e/o collettivo a seconda della tradizioni, almeno dignitoso rispetto alle caratteristiche in genere proprie dei luoghi di culto; di avere la possibilità  di osservare prescrizioni alimentari, così importanti in molte confessioni; di vedere trattato il proprio corpo, in relazione a cure mediche, igieniche, pratiche securitarie oltre che alimentari, in modo conforme alle norme religiose di riferimento; di avere, infine, la possibilità  di disporre di testi sacri, al di là  della Bibbia cristiana.
Nelle carceri italiane, pur in un universo molto variegato, manca molto spesso quasi tutto ciò, o è rimesso alla buona volontà  di singoli operatori, piuttosto che essere parte di un robusto sistema di diritti. Di tutto ciò sappiamo relativamente poco: anche la ricerca – sociologica o in altri rami delle scienze sociali – è ancora agli inizi a differenza di quanto avviene in altri paesi europei, e la consapevolezza delle istituzioni (penitenziarie in primis) è significativamente bassa. Un recente studio dell’Università  di Tor Vergata ha cercato di fare il punto sulla questione, almeno con riferimento alle carceri del Lazio (i materiali della ricerca sono consultabile nel sito Internet: csps.uniroma2.it/2012/10/09/assistenza-religiosa-in-carcere-diritti-e-diritto-al-culto-negli-istituti-di-pena-del-lazio-2/).
La disattenzione che su larga scala si presta a questo capitolo dell’emergenza carceraria è quanto mai significativa. In realtà , essa è la spia di questioni che vanno al di là  della questione carceri e in particolare del tema «religioni in carcere» in sé (tema, quando pure affrontato, considerato solo dall’ottica dei rischi di radicalizzazione di alcune confessioni – leggi Islam – dietro le sbarre, con conseguente approccio securitario). Essa dice di un più generale atteggiamento nei confronti del pluralismo religioso, nei confronti del quale – in un Paese che fatica ad accettare l’idea della fine di un monopolio cattolico dell’universo religioso, o che in alcune sue componenti fatica ad accettare che quel monopolio venga eroso da altre tradizioni ed espressioni di religiosità , anziché da una più radicale secolarizzazione della sfera pubblica – molte componenti culturali e politiche in Italia nutrono forti sospetti e diffidenze. Come sovente nei confronti del pluralismo in sé, non solo religioso.
Un bisogno negato
Per una cultura di sinistra, tuttavia il pluralismo culturale non è un disvalore, ma al contrario un bene prezioso da coltivare. Alle differenze culturali a sinistra non si oppone lo scontro di civiltà , ma il dialogo, il confronto, l’apprendimento reciproco, l’apertura alla contaminazione e all’ibridazione. Ma se il pluralismo religioso è un tassello del pluralismo culturale, perché per quest’ultimo ci si batte e invece una piena implementazione di quello religioso – negli spazi in cui si dà , nel sociale e nelle istituzioni – non suscita la stessa attenzione e non chiama allo stesso impegno? In altri termini, e per tornare alla questione carceri, perché la negazione dei diritti dei detenuti indigna e mobilita a campagne di protesta e azione, mentre della negazione dello specifico diritto al culto in un contesto pluralista poco o nulla sappiamo e poco o nulla ci curiamo?
La risposta sta nella implicita tendenza a stabilire gerarchie tra i diritti. Ci sono diritti che riteniamo più importanti di altri, beni la cui protezione riteniamo essenziale e beni che valutiamo come meno significativi. In carcere si ritiene per lo più che la dignità  della persona abbia a che fare con la disponibilità  di spazi decenti, con un trattamento non ulteriormente degradante al di là  della restrizione della libertà  in sé, ben più che con il rispetto del diritto al culto. Implicitamente crediamo che pregare secondo certi canoni, mangiare secondo specifiche norme religiose, disporre di oggetti per il culto, avere contatti con rappresentanti della propria comunità  religiosa, sia di secondaria importanza (nel migliore dei casi) rispetto al poter avere almeno vestiti, sigarette, tempi di giudizio certi, non subire vessazioni fisiche, poter avere contatti con avvocati e famigliari.
Dietro questo atteggiamento c’è l’implicita gerarchizzazione tra beni materiali e beni «postmateriali» e l’assunzione di una logica secondo cui dei beni «postmateriali» ci si può preoccupare solo una volta soddisfatti quelli materiali. L’emergenza carceri si ritiene per lo più che abbia a che fare con la negazione di beni materiali: quelli «postmateriali» sono ben lungi dal poter essere ragione di preoccupazione, o almeno non fintantoché ci saranno ben più pressanti questioni da risolvere. Solo a partire da una gerarchizzazione tra beni e diritti di questo genere si può spiegare il disinteresse, all’interno dell’emergenza carceri, per la questione in oggetto. Bisogna però dire, forte e chiaro, che una simile gerarchia tra beni e diritti, e la stessa dicotomia tra beni materiali e «postmateriali» con cui si sono letti processi di mutamento culturale in Occidente, è appunto figlia di una visione dell’uomo e della società  fondamentalmente etnocentrica e segnata, fosse anche reattivamente, da un certo sapore «materialista». Inoltre, per quanto riguarda il pensiero democratico e progressista, una gerarchia di quel tipo non può non essere anche figlia di un pregiudizio nei confronti delle religioni e della questione religione in sé duro anche solo da mettere pacatamente a tema.
I non luoghi spirituali
Su questo punto è necessario introdurre una apparente, parziale digressione. Il problema del rispetto del pluralismo religioso, del diritto alla libertà  religiosa in un contesto pluralista, non investe solo la «questione carceri», che pure ha le sue specificità  naturalmente; la battaglia per il pluralismo religioso intesa come battaglia per l’estensione dei diritti e delle libertà , come battaglia per il pluralismo, si pone quale sfida anche per la sinistra in molti altri spazi e ambiti della vita sociale: nelle scuole, negli ospedali, nei non-luoghi così tipici della modernità  contemporanea (aeroporti, stazioni), insomma in tutti quegli spazi in cui religioni «de-privatizzate», come ormai dovremmo sapere sono una buona parte delle religioni (che per loro «natura» sono in maggioranza costitutivamente non-private), tornano a punteggiare il panorama contemporaneo.
A sinistra possiamo fare finta di nulla, continuare a dire che se proprio devono esistere che siano almeno un fatto privato e di coscienza (cadendo irriflessivamente vittime di un bias cristiano-centrico), oppure possiamo assumerne almeno alcune rivendicazioni come parte di battaglie per una società  pluralista, e possiamo mobilitarle ad un comune impegno per cause progressiste, dalla pace all’ambiente, dalla lotta alla povertà  a quella alla pena di morte o alle nuove forme di schiavitù, giusto per fare alcune esempi. La sola sottolineatura degli aspetti regressivi delle religioni è non solo spesso unilaterale ma anche frequentemente improduttiva, oltre che risolversi nell’oscuramento di battaglie per i diritti.
Lo scoglio dei pregiudizi
Non c’è modo, credo, per creare le condizioni per una più compiuta implementazione del diritto al culto nelle carceri – che rappresenterebbe una risposta progressista ai rischi di radicalizzazione delle religioni dietro le sbarre, oltre ad essere parte del rispetto della dignità  della persona come tale e a maggior ragione nella condizione di privazione della libertà  – come in altri spazi sociali nel nostro Paese se non varando una legge sulla libertà  religiosa capace di riordinare in modo complessivo e ispirato a principi di eguaglianza i rapporti tra lo Stato italiano e le diverse confessioni.
La storia dell’iter parlamentare della legge sulla libertà  religiosa in Italia è non breve e travagliata, ma non si può non chiedere di nuovo alla cultura di sinistra e alle forze politiche che ad essa si ispirano di farsi carico – certo cercando consensi altrove – responsabilmente e senza ambiguità  di questa battaglia. Dall’approvazione di una legge organica sulla libertà  religiosa dipende la rimozione di molti (sebbene non tutti certamente) degli ostacoli alla piena implementazione del diritto al culto in carcere come altrove, e dunque una estensione dei margini di libertà  e pluralismo nel Paese. Ma un simile passo richiede come è ovvio anche un cambiamento culturale, il superamento di alcuni pregiudizi e conservatorismi: se il mondo cattolico può fare resistenza per non vedere eroso il proprio monopolio sulla religiosità  nel paese, la cultura di sinistra deve superare antichi pregiudizi che le impediscono di assumere il diritto ad una libertà  religiosa de-privatizzata come un diritto al pari di altri, anziché come una questione di importanza solo residuale.


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