SE LE CARCERI SOVRAFFOLLATE TRADISCONO LA COSTITUZIONE

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Nelle opinioni prevalenti sembra dominare una sorta di rassegnato realismo: sappiamo che le carceri italiane non sono gli alberghi a cinque stelle di cui in anni passati parlò, sciaguratamente, un ministro della Repubblica, e abbiamo fatto molto, in termini di depenalizzazione, misure alternative, ecc. Ma l’amnistia, per esempio, che pure servirebbe quanto meno a tamponare l’emergenza, è impraticabile per difetto delle condizioni politiche, la legislatura sta finendo e qualche disegno di legge qualificante appare destinato a naufragare. Pannella parla, con l’abituale enfasi, di «flagranza criminale » dello Stato; gli si risponde «prendiamo atto, siamo consapevoli, facciamo il possibile». Che, peraltro, e anche di questo vi è consapevolezza, non è abbastanza. Non è solo dialettica fra passionalità  e realismo, fra emotività  e freddezza. Il dialogo a distanza investe un punto nodale, e irrisolto, che non appartiene né alla tecnica legislativa né all’organizzazione delle risorse, ma alla struttura stessa del sistema penale italiano, e, soprattutto, al grado di accettazione e condivisione degli italiani. Basta scorrere i commenti che si rincorrono sul web per farsi un’idea degli umori dominanti: non è tanto il fatto che si ironizzi sul digiuno a colpire, quanto la netta percezione che trent’anni e passa di politica più o meno riformatrice in materia carceraria non abbiano prodotto nessun serio mutamento culturale. Una buona parte dei nostri cittadini, forse la maggioranza, resta convinta che l’unica ricetta per chi delinque sia una cella ben solida, poi prendere la chiave e gettarla via. E amen. Il destino dei carcerati lascia indifferenti, non accende passioni. Al massimo, c’è chi chiede di costruire nuove carceri e chi, per contro, ne diffida, già  rassegnato all’inevitabile sequenza di corruzioni all’italiana. Un coro unanime e impressionante che accomuna sedicenti progressisti e conservatori e sommerge di lazzi e becere facezie le poche voci problematiche. Il popolo, almeno quello del web, invoca repressione e galera. La politica rischierebbe persino di farci una bella figura, se non avesse la sua buona parte di responsabilità : dopo vent’anni di urla scomposte, di allarme sicurezza, di leggi esasperatamente punitive, l’effetto era prevedibile. Una cultura della vendetta, livorosa e ghignante, sembra imporsi. Non ne siamo esenti — parlo per esperienza diretta — neanche noi magistrati. Ma se le cose stanno così, è una sconfitta non solo per Pannella e per coloro — e non mancano — che continuano a credere nell’utopia di un carcere diverso. È una sconfitta per la stessa Costituzione. Oggi la nostra Carta fondamentale è tornata di moda. Il rischio è che diventi un oggetto di culto da venerare, ma tenendosi a debita distanza. Che se ne citino, con enfasi, i passi che più ci convengono, stendendo un velo d’oblio su tutti gli altri. Chissà  quanti fra coloro che fanno del sarcasmo su Pannella e sui “poveri delinquenti” l’altra sera provavano fremiti di orgogliosa commozione davanti allo show costituzionale di Benigni. Bisognerebbe, con la santa pazienza, ricordar loro che è proprio la Costituzione a fissare i parametri della “giusta” pena, imponendo allo Stato di attivarsi per promuovere la rieducazione dei condannati. E, piaccia o non, un carcere sovraffollato, un carcere che non offre lavoro, cultura, istruzione, e, dunque, speranza, un carcere che alimenta suicidi è un carcere fuori dalla Costituzione.


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