IL DIFFICILE DIALOGO TRA ROMA E BERNA

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Due Stati confinanti, con una lunga storia e una lingua in comune, con una crescente interconnessione che nelle aree di frontiera diventa incontro quotidiano, ma che spesso si danno le spalle, quasi a non volersi conoscere. Perché? E come si possono abbattere o almeno abbassare queste barriere?
Ieri sera a Villa Madama, e oggi in tre laboratori paralleli su finanza, infrastrutture e cultura, i partecipanti al Forum italo-svizzero, organizzato dall’ambasciata di Svizzera a Roma e dalla rivista Limes, in collaborazione con l’Ispi, hanno affrontato la questione senza remore né bemolle. Aperta dai due ministri degli Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata e Didier Burkhalter – che nell’occasione hanno firmato un trattato– quadro di cooperazione rafforzata – la discussione ha ruotato attorno ad alcune parole chiave. Anzitutto, le “regole del gioco”. Da parte svizzera si è voluto sottolineare che uno dei principali impedimenti allo sviluppo degli investimenti – peraltro già  corposi, nel nostro paese, sta nell’incertezza del diritto. Ciò che distingue l’Italia rispetto agli altri vicini della Confederazione, e limita alquanto l’attrattività  del nostro paese.
Ma il peggior nemico del dialogo, hanno convenuto in molti, sono gli stereotipi sul presunto “carattere nazionale”. Particolarmente vivaci nelle aree di frontiera (Ticino/Lombardia ma non solo), dove le rappresentazioni xenofobiche dell’“italiano inaffidabile” piuttosto che dello “svizzero parassita” sono ancora oggi profondamente sedimentate, e sfruttate persino da alcuni leader politici. Torna alla mente la famosa sequenza del film Pane e cioccolata, diretto nel 1973 da Franco Brusati, quando Nino Manfredi si schiarisce baffi e capelli nella speranza di farsi accettare dagli svizzeri.
In quegli anni l’italiano immigrato era talvolta classificato dagli svizzeri con il poco gratificante epiteto di “Tschingg”. Eppure quel passato non è completamente passato, come ci ricorda, ad esempio, l’invocazione del “Muro di Chiasso” da parte di alcuni leghisti ticinesi. Perché la caratteristica della “psicologia dei popoli”, che ci vuole tutti confitti in un immutabile destino genetico – a un passo dal razzismo – è di resistere alle repliche della storia.
Inoltre, un’indagine recente di Presenza Svizzera, rivela che la Confederazione gode in Italia di un’immagine meno lusinghiera rispetto ad altri paesi europei, e ciò soprattutto per il peso di cliché negativi circa la “chiusura” e la “freddezza” dei nostri partner transalpini. Peraltro gli italiani hanno degli svizzeri un’idea ben migliore che di se stessi: e allora, come pretendere che gli altri ci prendano sul serio, se noi non lo facciamo?
La trappola degli stereotipi è oggi la più grave emergenza culturale in Europa. L’eurocrisi si è combattuta e si combatte meno sui dati di realtà , molto più sulle mispercezioni reciproche, sulla sfiducia radicata nel passato anche lontano piuttosto che dovuta alle performance attuali. In tale contesto, operazioni di ecologia culturale come quella che il Forum italo-svizzero cerca di promuovere, sarebbero almeno altrettanto urgenti fra popoli e paesi che pure appartengono all’Unione Europea e sono quindi legati da un’interdipendenza ancora più vincolante di quella italo-svizzera. Ma spesso lo dimenticano. Mettendo così in questione il senso stesso dell’Europa.


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