La distanza (ridotta) con Berlino ma tagliare il debito tocca a noi

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Quasi esattamente sei mesi fa, in un’intervista al Corriere della Sera, il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco introdusse un concetto che a molti nordeuropei apparve lunare. Disse che dello spread fra Bund e Btp, i titoli di Stato tedeschi e italiani, solo «per due quinti è “colpa” nostra». Il resto, aggiunse Visco, «è un premio al rischio che lo Stato paga per il timore che la moneta unica a un certo punto non ci sia più». Quando il Governatore pronunciò queste parole lo spread fra Bund e Btp decennali era a 470 punti base, il rendimento al 6% e su Google.com le ricerche delle parole «euro break up», frantumazione dell’euro, erano al secondo picco di frequenza di tutti i tempi (il record erano stati gli ultimi giorni di governo Berlusconi). Ieri invece le ricerche di «euro break up» sul web tendevano a zero, lo spread sui dieci anni era a 283 e il rendimento a 4,25%. Gli investitori hanno smesso di credere che l’euro andrà  in pezzi. Secondo il sondaggio Sentix solo il 2% pensa che l’Italia esca nel prossimo anno, dunque il Paese paga quasi solo gli interessi che sono, per dirla con Bankitalia, «colpa nostra».
L’accordo di Washington sul bilancio per ora aiuta, ma Mario Draghi alla Banca centrale europea è stato determinante. Lo è stato promettendo di fare «qualunque cosa» pur di cancellare la parola «break up» da Google e dalla testa degli investitori. Non avrebbe potuto farlo, non con questa efficacia, senza un ritorno di incisività  dell’Italia in Europa e della sua credibilità  sui mercati. Certo, non tutto è perfetto: sulla capacità  d’azione della Bce gravano le divisioni nell’Eurotower, che a porte chiuse non riesce a decidere a quali livelli di stress finanziario può impiegare davvero la sua forza di fuoco. Per ora nessuno le ha chiesto di farlo, dunque il problema non emerge e la deterrenza nucleare funziona: la dissuasione non è in chi possiede le armi, anche finanziarie, ma nella testa di chi teme di subirle se attaccasse.
Questo fa sì che oggi la Germania o il contagio greco non c’entrano più. Su quasi tutte le scadenze l’Italia ormai paga tassi in linea con il proprio debito, la propria capacità  di competere e di crescere. In politica la si chiama «quota Monti», perché il premier disse che voleva dimezzare lo spread rispetto al suo giorno d’ingresso: ieri è stata raggiunta e superata. Ma in economia la si può definire «quota Visco» o qualcosa di vicino a essa. Quel numero è vitale per far sì che il debito prima o poi inizi a scendere e sia possibile finanziarlo. Dopo la crisi del ’92 il debito e il deficit calarono in buona parte perché, con l’aggancio all’euro, l’onere che lo Stato pagava ogni anno in interessi crollò dall’11,5% al 5,1% del Pil (fra il ’95 e il 2008). Ma anche ammesso che i progressi recenti tengano, un dividendo del genere non si ripeterà . Perché i tassi scendano ancora, servirebbero passi avanti sugli eurobond che per ora non si vedono neppure all’orizzonte.
Con il debito avviato verso il 128% del Pil nel 2013, ciò significa che nella prossima legislatura l’Italia può mettersi in sicurezza solo grazie alle proprie scelte. Serve un forte surplus di bilancio prima di pagare gli interessi, e una crescita sostenuta. Quanto a questo non importa dove si tiri la riga: negli ultimi quindici, dieci o cinque anni, il Pil italiano è arrivato sempre ultimo o fra gli ultimissimi in Europa e nel mondo. Non è facile cambiare un’inerzia del genere, ma è un destino ineluttabile. I dati della fiducia dei manager a dicembre, in rialzo per la prima volta da un’eternità , segnalano che prima o poi la ripresa anche questa volta arriverà . La domanda di made in Italy dalla Cina, dagli Stati Uniti o dalla Germania c’è e aumenta. Le imprese devono pur ricostituire i loro magazzini ormai vuotissimi.
Ma per far calare il debito nei prossimi 15 anni e assicurarsi contro un secondo morso della crisi non basta un rimbalzo. Occorre tenuta nel tempo. Serve per esempio ciò che fa la Spagna, dove le vendite auto quest’anno sono crollate del 13% eppure la produzione per l’export è salita dell’11% (con Volkswagen, Renault e Ford che investono) perché i lavoratori hanno accettato contratti alla tedesca con più flessibilità , più competitività  e più posti di lavoro.
Aiuterebbe anche un ritorno del credito alle imprese, in Italia sceso del 4% nel 2012. Le banche hanno accumulato sofferenze in recessione, quindi ora frenano sui prestiti. Il 2013 può essere l’anno in cui il sistema decide come affrontare il tema, se gradualmente o in modo deciso, oppure magari incoraggiando il credito non bancario. Scelte così sono lussi da tempi di bassi spread. Dunque, forse, adesso.
Federico Fubini


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