L’amarezza e la fiducia alla fine del settennato

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Il lascito di sette anni è un discorso dall’architettura severa e insieme sobria, con forti venature sociali. Ma politicamente non è un commiato. Dalle parole pronunciate nel messaggio televisivo di fine anno, si capisce che Giorgio Napolitano non considera il suo lavoro terminato: non ancora. Il capo dello Stato osserva con sguardo assai poco indulgente i fallimenti dei partiti sulle riforme e l’indecenza di alcuni scandali. Non concede attenuanti e, quanto all’evoluzione di Mario Monti da tecnico a politico, la definisce una «libera scelta» lasciata alla responsabilità  del solo presidente del Consiglio.
Poteva dire che non condivideva quella metamorfosi. Ma c’è la campagna elettorale e Napolitano si ritrae da giudizi di merito, limitandosi a spiegare che l’opzione del premier è legittima. Ormai gli preme altro. Guarda all’appuntamento con le urne del 24 e 25 febbraio e teme che ci si arrivi saltando da una rissa all’altra. Soprattutto, avverte il pericolo di cinquantadue giorni all’insegna del populismo, delle promesse facili e impossibili, che darebbero forma a un’Italia pericolosamente «all’antica», irresponsabile e instabile.
Il tentativo, invece, è quello di consegnare al proprio successore al Quirinale una nazione emancipata almeno parzialmente dalle sue tare. L’insistenza sull’Europa non è di maniera. A un’Italia che ultimamente sembra meno europeista, addita legami e impegni che non possono essere né sottovalutati né elusi. Per questo condivide in modo esplicito le ragioni di chi rifiuta la mediocrità  e le scelte mancate della Seconda Repubblica. Ma fissa anche il limite che le critiche, pur comprensibili, non debbono valicare: l’illusione di fare a meno della politica.
In questo, il presidente della Repubblica continua a essere l’interprete più ortodosso e convinto della tenuta delle istituzioni. E si candida al ruolo di analista e regista degli equilibri creati dal prossimo voto. Il suo richiamo alla Costituzione che non prevede l’elezione diretta del capo del governo potrebbe apparire superfluo. Ma non lo è, in un’Italia che riemerge dagli anni controversi del leaderismo berlusconiano; e che oscilla tuttora fra modi diversi di esercitare il potere.
Nell’accenno di Napolitano, appena due righe e mezzo, si indovina un ammonimento ai protagonisti elettorali: l’esito sarà  valutato innanzitutto in base ai voti raccolti da ogni schieramento. Ma il Quirinale userà  ogni sua prerogativa per «leggere» la nuova geografia politica e garantire al governo una guida affidabile. L’obiettivo sarà  fino all’ultimo quello di stabilizzare l’Italia. Ricordarle l’impraticabilità  delle scorciatoie. E ancorarla a un destino europeo.
Il capo dello Stato sembra intenzionato a percorrere questo ultimo tratto con un piglio non diverso dal resto del settennato. Vuole evitare che il Paese si limiti a galleggiare, dopo avere rischiato una brutta deriva. Saranno settimane cruciali, che segneranno un passaggio di fase. La direzione è quella individuata insieme con Monti nell’autunno del 2011: anche se Napolitano avverte acutamente il costo sociale che tutto questo ha comportato e comporterà . E lo impone alla riflessione di chi guiderà  l’Italia nei prossimi anni.
Perché quella che si chiude, dal punto di vista delle riforme, è una legislatura perduta. Perché i partiti non hanno sin qui saputo, o voluto, individuare il limite oltre il quale, diceva un maestro della sua giovinezza, Benedetto Croce, non deve spingersi la loro discordia. Perché il nostro bipolarismo selvatico e rissoso rischia di uscire di scena senza lasciare molti rimpianti (e questo sarebbe sicuramente un bene) portandosi appresso, però, anche la speranza di una democrazia dell’alternanza finalmente compiuta (e questo sarebbe sicuramente un male).
Non era certo in un simile scenario che Napolitano, all’inizio del settennato, sperava di lasciare il Quirinale. E non considerava scontato questo esito nemmeno tredici mesi fa, quando in un momento terribile per l’Italia governò, scrisse il New York Times, «con stile realistico» e grazie a una «ricca cultura barocca», la transizione da Silvio Berlusconi a Mario Monti: non un complotto internazionale, come adesso va dicendo il Cavaliere, ma «una maestosa difesa delle istituzioni democratiche italiane» messa in campo da the quiet power broker, il posato mediatore. Un anno e passa di tempo poteva e doveva servire ai partiti, in primo luogo a quelli che, volenti o nolenti, appoggiavano un governo chiamato a fronteggiare l’emergenza economica e finanziaria, a ritrovare in Parlamento e nel Paese se stessi e con se stessi, nonostante tutto, le ragioni della democrazia dell’alternanza. Non è stato così. Naturalmente, come ha sottolineato il capo dello Stato, non è giusto fare di ogni erba un fascio, e nemmeno dimenticare che, assieme alle responsabilità  dei soggetti politici, ci sono pure, eccome, quelle delle classi dirigenti nel loro complesso, su cui curiosamente così poco si esercitano i retori dell’antipolitica. Ma resta il fatto che tredici mesi non sono bastati a varare una legge elettorale appena decente e, se è per questo, nemmeno ad adottare una legge che alleviasse «la realtà  angosciosa delle carceri».
È in questo scoraggiante contesto che il presidente della Repubblica, giustamente orgoglioso di aver comunque assolto il suo compito «con scrupolo, dedizione e rigore», si appresta a lasciare un’eredità  politica (certo non per sua volontà ) per così dire sospesa: in modo inappuntabile, c’è da esserne certi, nella forma e nella sostanza. Ha dovuto sciogliere con qualche settimana di anticipo le Camere, ritrovandosi così nella condizione (che ben volentieri avrebbe evitato) di dover essere lui, dopo il voto, a conferire l’incarico per la formazione del nuovo governo. Con buona pace di chi gli attribuisce la tentazione di una sorta di presidenzialismo di fatto, Napolitano è, per storia e per convinzione profondamente radicata, un fautore convinto della democrazia parlamentare. Deciderà , quindi, sulla scorta del risultato delle elezioni, che (ancora una volta Croce) «sono per eccellenza il momento più alto della politica»: di una politica che non può essere rifiutata o disprezzata, ma che «non deve ridursi a conflitto cieco o a mera contesa per il potere, senza rispetto per il bene comune e senza qualità  morale». Se e quanto la politica questo rispetto e questa qualità  perduti riuscirà  a riguadagnarli (già  a cominciare dalla estrema «prova d’appello» rappresentata dalla scelta dei candidati), non può certo stabilirlo il capo dello Stato. Che può solo rinnovare l’appello a una campagna elettorale non distruttiva. E utilizzare il prestigio, l’autorevolezza e, perché no, la popolarità  acquisiti in questi anni per chiamare il popolo sovrano, e in particolare i giovani, a non farsi incantare dalle sirene della pura protesta, ma a farsi piuttosto parte vigile, attiva ed esigente del cambiamento possibile. Cominciando con il giudicare senza sconti la qualità  e la credibilità  non solo delle proposte dei partiti «vecchi» e nuovi, ma anche dei candidati che dovrebbero realizzarle.
Può sembrare poco, rispetto alle grandi riforme invocate e mancate, e mentre bisogna fare i conti con una nuova, grande «questione sociale» dai risvolti difficilmente prevedibili, sicuramente sconvolgenti. Forse è così, ma certo Napolitano non poteva andare oltre senza interferire con una campagna elettorale di fatto già  iniziata. Le sue parole vanno dunque intese come un atto non di fede, certo, ma di ragionata e ragionevole fiducia nella politica e, nello stesso tempo, nel popolo italiano. Tra tante speranze tradite e deluse in sette anni, una certezza.


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