NASCE IL “CARTELLO VERDE”

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Se qualcuno pensa ancora che si tratti di una questione accessoria o marginale, di retorica paesaggistica o peggio di fondamentalismo verde, si sbaglia di grosso. Qui si parla di ecologia ed economia. Vale a dire di sviluppo sostenibile, compatibile con la difesa dell’ambiente e della salute collettiva. Quindi di investimenti, lavoro, servizi, patrimonio culturale e risorse naturali, mobilità  e infrastrutture, turismo e agricoltura. Un programma di governo, insomma, per il futuro del Paese.
È la tanto celebrata Green Economy, spesso invocata a parole e contraddetta nei fatti, riproposta qui come soluzione concreta (e obbligata) per uscire dalla crisi. Come risposta alla stagnazione e alla recessione. Ovvero, come prospettiva di fiducia, orizzonte del futuro collettivo.
Si va, appunto, dal New “Green Deal” alla difesa della biodiversità , in quanto ricchezza della nazione. Dalla valorizzazione del patrimonio culturale alla domanda di mobilità  e infrastrutture. Dalla tutela della salute e dell’ambiente nelle scelte industriali (vedi caso Ilva) al governo del territorio. Dalla difesa del suolo all’adattamento ai cambiamenti climatici. Dalla filiera agroalimentare al turismo. Dal diritto all’ambiente, per una tutela costituzionale e penale, fino ai nuovi indicatori di sostenibilità  per andare oltre la logica contabile del Pil (Prodotto interno lordo).
Fitta di richieste e proposte concrete, l’Agenda ambientalista offre una sorta di “Roadmap nazionale” per affrontare e possibilmente sciogliere i nodi del nostro sviluppo. In nessuno dei programmi dei vari partiti o coalizione in lizza per le prossime elezioni, il “cartello verde” ha individuato infatti “la consapevolezza della centralità  della sfida che si pone al nostro Paese, anche nel contesto dei problemi globali, né delle azioni innovative necessarie per perseguire l’obiettivo”. E perciò le associazioni avvertono che non c’è un tempo per l’economia e un altro tempo per l’ambiente: appartengono entrambe alla stessa dimensione sociale.
Prendiamo, per esempio, il settore dei beni culturali. L’Italia detiene il maggior numero di siti (47) inclusi nella lista dei patrimoni dell’umanità . A questi vanno aggiunti 467 musei statali e 4.232 non statali, più 215 monumenti e aree archeologiche. Ma questo immenso “caveau” nazionale non è sostenuto economicamente in modo adeguato. Nel 2012, la dotazione del ministero preposto è stata appena di 1.509 milioni di euro, pari allo 0,19% del bilancio statale, contro i 1.987 miliardi del 2007 (0,29%). E dal 2007 al 2011, l’occupazione nelle imprese culturali è cresciuta a un ritmo medio dello 0,8% all’anno, passando dal 5,3 ad appena il 5,6%, con un totale di circa un milione e 390 mila addetti.
Ma anche il turismo, che resta pur sempre la nostra prima industria nazionale, sebbene l’Italia sia retrocessa al quinto posto nella graduatoria mondiale, “non sembra dare – secondo gli ambientalisti – tempestive ed efficaci risposte alle evoluzioni del mercato”. Eppure, nel 2011 la domanda – in prevalenza estera – ha sfiorato i 31 miliardi di entrate valutarie, con un saldo commerciale positivo di circa dieci. Ma la “domanda potenziale” è ancora più ampia e viene depressa dal deficit di competitività  (infrastrutture, trasporti, qualità  dei servizi, tutela del consumatore).
Contro il separatismo nordista, l’Agenda ambientalista non manca infine di citare a questo proposito la “questione Sud”. “Non è più accettabile – si legge nel documento – che il Mezzogiorno non possa esprimere la propria naturale vocazione turistica in maniera moderna ed efficiente”. E il “cartello verde” conclude che il rilancio del turismo nel Sud “potrebbe trasformarsi in un’industria di traino per tutto il Paese e attrarre investimenti”, contribuendo così ad affrontare anche i problemi della criminalità  e della sicurezza.


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