Chi salverà la laguna?
Forse, e per fortuna, l’investimento da un miliardo e mezzo di euro non si troverà, ma in caso contrario a luglio il comune di Venezia autorizzerà l’avvio dei lavori di un grattacielo alto 250 metri sulla terraferma dietro la città, a una decina di chilometri da piazza San Marco.
Anche se il sindaco Giorgio Orsoni assicura che la torre non rovinerà lo skyline di Venezia, The Art Newspaper di cui sono direttrice e fondatrice ha pubblicato un fotomontaggio, ricavato da calcoli matematici, della vista dal Lido. Il grattacielo si vedrebbe dall’imbarcadero di S. M. Elisabetta, alto due terzi del campanile di San Marco, e sciuperebbe l’immagine iconica che tutti abbiamo in mente.
Non è vero, dice il sindaco con ostinazione. Così ho chiesto un’analisi dei calcoli agli esperti dello studio di consulenza Miller Hare, che fa questo tipo di proiezioni per tutti i grattacieli di Londra. I risultati confermano i nostri.
Negli ultimi trent’anni Venezia è diventata oggetto di così tanti dibattiti politicizzati, la cui prima vittima è stata la verità, che un calcolo aritmetico può essere trattato come una questione di opinioni e la maggior parte della gente si limita a fare spallucce.
Dietro ciò che viene descritto in questo articolo, e mette a repentaglio la città, c’è proprio questo atteggiamento.
Quando nel 1987 è stata dichiarata Sito patrimonio dell’umanità dell’Unesco, Venezia avrebbe dovuto varare un piano di gestione. A marzo di quest’anno il consiglio comunale lo ha finalmente presentato al pubblico. Negli intenti del consiglio, il piano “definisce le strategie e seleziona le modalità di attuazione in Piani di Azione”. Peccato che il documento tradisca quasi del tutto entrambi gli obiettivi, visto che gli autori hanno ignorato le questioni più importanti.
Il riconoscimento di Sito patrimonio dell’umanità non viene conferito spontaneamente dall’Unesco, ma prevede che sia lo stato-nazione a farne domanda. È stata l’Italia a chiedere che Venezia entrasse nella lista. La città, ovviamente, soddisfaceva i requisiti necessari e in cambio del titolo l’Italia si è impegnata a produrre un piano di gestione e a definire una “Buffer Zone” (area di protezione) intorno a Venezia. Essere Sito patrimonio dell’umanità non assicura alcun finanziamento, perché per quest’anno l’Unesco dispone di appena 3,25 milioni di dollari da investire nelle sue attività e in tutti i suoi siti.
Tutto ciò che l’Unesco può fare è vigilare e, se nota abusi grossolani, protestare, presentare rimostranze formali al paese coinvolto, spostare il sito nell’elenco dei patrimoni a rischio e, come ultima risorsa, privarlo del titolo.
A Venezia l’Unesco ha una sede che però non si occupa della città. In altri termini, se la sede dell’Unesco di Venezia nota un uso improprio dello status di sito patrimonio non può intervenire in alcun modo se non inviando un rapporto al quartier generale di Parigi.
Nel 2006 il governo italiano ha stabilito che tutti i siti Unesco del paese dovessero presentare il loro piano di gestione e a novembre del 2012 quello di Venezia è stato finalmente approvato dal consiglio comunale.
Il piano è un documento di 157 pagine frutto della consultazione di 250 enti pubblici, con 136 proposte. Non si sa chi siano gli enti, ma ho scoperto che il noto comitato NoGrandiNavinonèstatointerpellato. Non è invece difficile dedurre che il consiglio comunale ha ascoltato l’Autorità Portuale di Venezia, poiché la questione delle grandi navi da crociera che attraversano la città è menzionata a malapena nell’elenco dei problemi da risolvere. Sebbene proponga di intraprendere studi sulle attività portuali e sulle navi da crociera da un punto di vista ambientale e socioeconomico, il piano specifica che devono essere coerenti con gli obiettivi “anche in un’ottica di valorizzazione del porto di Venezia quale patrimonio storico, economico e sociale
di Venezia e della sua Laguna”. So da dove proviene questa frase. Il potente presidente dell’Autorità Portuale di Venezia, Paolo Costa, ha pronunciato le stesse parole nell’ottobre del 2011 durante il discorso alla riunione annuale dell’Associazione dei Comitati Privati Internazionali per la Salvaguardia di Venezia. Costa va fiero del fatto che, sotto la sua gestione, il porto veneziano è diventato il più importante del Mediterraneo per l’industria delle navi da crociera.
Quasi tutte le navi sono lunghe il triplo di un campo di football americano, con una stazza lorda di centomila tonnellate o più. Nel 1997 ne sono passate 206, nel 2011 sono diventate 655, e siccome entrano ed escono dallo stesso canale significa 1310 passaggi che oscurano la vista, inquinano l’aria, scuotono le case e spostano l’acqua nei canali intorno alla Giudecca.
Dal punto di vista politico, Costa se la cava decisamente meglio del sindaco Orsoni, che è solo un avvocato, mentre lui è stato ministro dei Lavori pubblici del governo nazionale, presidente della Commissione per i trasporti e il turismo del parlamento europeo e l’anno scorso è stato riconfermato presidente dell’Autorità Portuale di Venezia fino al 2016. Costa pensa in grande e ha in mente di trasformare il porto di Marghera in uno snodo per il trasporto delle merci nell’ambito del progetto dell’Unione europea di un corridoio che da Barcellona arriva ai Balcani e all’Ucraina passando per Venezia. Il porto di Venezia-Marghera diventerebbe il più grande del nord Italia. Il progetto, però, dipende dai finanziamenti europei e se in confronto il porto per il traffico dei passeggeri di Venezia è piccolo, per Costa ha il vantaggio di trovarsi interamente sotto il suo controllo, quindi può intervenire in maniera incisiva.
Dal 1997 l’Autorità Portuale ha investito 141 milioni di euro per modificare e modernizzare il porto passeggeri mentre la società fondata quello stesso anno per gestirlo, la Venezia Terminal Passeggeri (VTP), ha contribuito con 32 milioni. La SAVE, società che gestisce l’aeroporto veneziano, è azionista della VTP e ha interessi nella crescita del porto perché il grosso dei passeggeri delle crociere arriva o riparte in aereo. Il consiglio comunale, d’altro canto, non ha azioni né nella VTP né nella SAVE e non può incidere sulla loro gestione. Non ha neppure alcuna autorità sul canale della Giudecca, dove transitano le navi, perché questo rientra nella sfera di competenza dell’Autorità Portuale. È come se Broadway non fosse di pertinenza del sindaco Bloomberg ma del Dipartimento dei trasporti federale.
Costa nega che il transito delle navi comprometta gli edifici o la qualità dell’aria, eppure chi lo contesta sostiene che non è stato effettuato nessuno studio indipendente.
Dopo l’arenamento della Costa Concordia davanti all’isola del Giglio il 13 gennaio 2012, Francesco Bandarin, vicedirettore generale dell’Unesco per la cultura, ha scritto una lettera al ministro dell’Ambiente dicendo che l’incidente “rafforza le preoccupazioni” sui rischi posti ai siti patrimonio dell’umanità, in particolare Venezia e la sua laguna. Poco dopo il governo ha emanato un decreto con cui vietava alle navi di oltre quarantamila tonnellate di percorrere il canale della Giudecca. È stato ignorato.
Malgrado il decreto e l’appello ufficiale di un alto esponente dell’Unesco, malgrado il fatto che il consiglio comunale stesse redigendo il piano di gestione per l’Unesco, malgrado gli autori avessero la responsabilità di un Sito Patrimonio dell’Umanità, il piano non mostra il coraggio sufficiente per fare la minima obiezione agli interessi dell’Autorità Portuale.
Si arriva così alla questione del turismo. Secondo il piano di gestione, visto il numero documentato di persone che pernottano a Venezia e dintorni, ci sono 6,3 milioni di visitatori l’anno che, moltiplicati per il numero medio dei giorni di sosta, fanno 23 milioni di “presenze”. Quello che il piano
non dice è che molti più turisti si trattengono un solo giorno e di solito in gruppi numerosi.
Come i turisti che visitano il Louvre per la prima volta e vanno dritti alla Gioconda, così la maggior parte dei turisti pendolari punta subito a piazza San Marco. Quello che veniva chiamato il “salotto d’Europa” ora somiglia all’atrio affollato di una stazione ferroviaria, con centinaia di gente che gironzola, si riposa sugli zaini e fa il picnic.
Fra le tantissime cose che si potrebbero citare sugli abusi del settore turistico a Venezia ne spiccano tre in particolare. In primo luogo, senza un controllo del turismo non si potrà realizzare uno dei principaliobiettividelpianodigestione, ossia incoraggiare i veneziani a restare a Venezia e fare in modo che prenda piede una maggiore varietà di attività economiche. In secondo luogo, per poter gestire il turismo, qualcuno piuttosto in alto deve ammettere pubblicamente che presto il numero dei turisti dovrà essere limitato. In terzo luogo, il turismo non contribuisce abbastanza alla manutenzione della città.
Oltre a evitare la questione delle navi da crociera, il piano di gestione evita anche questo problema cruciale.
Limitare i flussi significherebbe anche introdurre biglietti d’ingresso e in questo modo i turisti potrebbero contribuire direttamente alla manutenzione della città. Se i 6,4 milioni di visitatori accertati versassero trenta euro in un fondo protetto si arriverebbe a 192 milioni di euro l’anno.
Il piano di gestione, però, teme di sollevare uno qualsiasi di questi punti per non urtare contro gli interessi dei diretti beneficiari delle masse di turisti: Costa con le sue navi da crociera, i tassisti, i proprietari delle pizzerie e quelli delle bancarelle che vendono maschere di carnevale.
L’omissione in assoluto più grave del piano, però, è la mancata considerazione dell’aumento del livello marino. Ovviamente si parla dell’acqua alta e del Mose, i cui lavori dovrebbero essere ultimati nel 2016, ma l’aumento cronico del livello del mare è giusto accennato in relazione all’esigenza di approfondire le ricerche per stabilire le conseguenze dell’aumento dell’umidità sugli edifici veneziani, e il cambiamento climatico può “aumentare il rischio idraulico in tutto il territorio a causa delle prospettate intensificazioni delle piogge invernali e dell’aumento del livello dei mari”.
Quello che le barriere non possono fare è salvare la città dagli effetti di tale aumento (la malattia cronica) contrapposti agli allagamenti (le fasi acute) se non con la chiusura frequente e, in ultima analisi, permanente.
Quando ho chiesto a Giorgio de Vettor del consiglio comunale di Venezia di spiegarmi perché l’aumento del livello marino non sia discusso nel piano, lui ha eluso la domanda: “È un problema che va affrontato in un modo diverso, prendendo in considerazione tutti i fattori e gli aspetti del caso”.
Alla base di tutto questo c’è il timore di riaccendere il dibattito attorno al Mose. A Venezia persiste una certa diffidenza verso le barriere accentuata dall’atteggiamento difensivo e dalla mancanza di trasparenza del Consorzio Venezia Nuova, il gruppo di industrie italiane che le costruisce e si astiene dal pubblicare resoconti dettagliati o rapporti dettagliati di avanzamento scientifico.
Nel frattempo la città viene divorata dall’umidità. Adesso ogni centimetro di aumento del livello marino conta, perché l’acqua ha superato le basi di pietra impermeabile di moltissimi edifici e viene assorbita dai mattoni porosi, sgretolandoli e portandosi via la malta.
Il consiglio comunale conclude il piano di gestione dicendo che parteciperà adesso al coordinamento di tutti gli enti che hanno un ruolo o un interesse nell’amministrazione di Venezia e della sua laguna. Perlomeno riconosce che è questa l’essenza del problema: ci sono fin troppe organizzazioni. Ciò che serve disperatamente è un ente superiore con un reale potere. Ma questo piano di gestione, con la sua analisi poco convincente dei problemi della città, l’abilità di ignorare la realtà e l’evidenteservilismoneiconfronti dei gruppi d’interesse, dimostra che il sindaco Orsoni e il suo consiglio non potranno mai essere quell’ente.
Purtroppo resta aperta la questione di chi salverà “la fiabesca città del cuore”, come la definì Byron, e il tempo sta scorrendo via.
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