Una difficile alchimia per marcare le distanze dai vecchi schieramenti

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Il presidente del Consiglio lascia capire che sarà  molto esigente nella trattativa; che l’«anzianità » parlamentare costringerà  forze come Udc e Fli a sacrificare qualche esponente di lungo corso. Insomma, i candidati saranno selezionati con criteri perfino più severi di quelli previsti per legge. Ci sarà  una sola lista al Senato. Alla Camera tre: con quella del premier definita «di esponenti della società  civile che non comprenderà  parlamentari».
Si chiamerà  «scelta civica con Monti per l’Italia». Sembra promettere un alto tasso di rinnovamento; ma anche tensioni all’interno dei partiti alleati. È il prezzo pesante che il premier vuole pagare e far pagare ai suoi compagni di strada per dare l’impressione all’opinione pubblica di un vero cambio di passo e di gruppo dirigente. Si tratta di una mossa di rottura che lascia indovinare qualche malumore, e riflessioni lunghe e tormentate. Eppure, l’impressione è che Monti sia riuscito a imporla perché solo così può presentare lo schieramento centrista come una realtà  veramente diversa: alternativa sia alla coalizione guidata da Pier Luigi Bersani nel centrosinistra sia a quella di Silvio Berlusconi nel centrodestra.
D’altronde, appare una scelta obbligata nel tentativo di riavvicinare quell’elettorato che il presidente del Consiglio vede lontano dai partiti e può essere attratto dall’astensione o dal movimento del comico Beppe Grillo. La volontà  di marcare la differenza rispetto a schieramenti tradizionali che i sondaggi tendono a dare in vantaggio in questo inizio di campagna elettorale prevale su ogni altro calcolo. La sfida, tuttavia, si profila difficile, spigolosa, forse perfino al limite dell’azzardo. Il sistema elettorale privilegia le coalizioni del passato. E la decisione di Monti di trasformarsi da presidente tecnico e fuori, se non sopra delle parti, a politico, lo espone ad attacchi destinati a crescere.
È vero che nel simbolo c’è il suo nome, ma non la parola «presidente»: come se volesse rispettare l’indicazione data da Giorgio Napolitano nel suo discorso di fine anno in tv. Nell’occasione, il capo dello Stato ha voluto ricordare che nel nostro sistema istituzionale non esiste l’elezione diretta del capo del governo: sebbene in passato alcuni leader si siano comportati come se fosse così. E ieri sera Monti, a Otto e mezzo, ha negato di aver voluto dare vita ad un «partito personale». Eppure, il suo nome che campeggia sul simbolo fa dire agli avversari, del Pdl e del Pd, che la scelta è «poco europea»; e che sono nate le «liste civiche personali». E lui stesso ha fatto capire che il suo obiettivo è rimanere a palazzo Chigi.
Se non sarà  premier, ha spiegato, probabilmente non farà  nemmeno il ministro dell’Economia. E stavolta il fuoco di fila parte in automatico. Si intuisce che il presidente del Consiglio ed i suoi alleati dovranno affrontare attacchi concentrici in tutta la campagna elettorale. «Mi sembra che la coalizione sia al di sotto delle ambizioni di Monti e delle aspettative degli italiani», lo incalza il segretario del Pdl, Angelino Alfano. «L’alleanza tra Fini, Monti e Casini non ha alcuna possibilità  di vincere. Si candida solamente a fare poi da stampella a un eventuale governo Bersani». E Berlusconi parla di «cinismo del governo tecnico» che ha «impoverito l’Italia», sorvolando sulle condizioni in cui l’ha lasciata quattordici mesi fa il suo centrodestra. Non solo. Gli uomini del Cavaliere puntano il dito sul fatto che la conferenza stampa del premier non prevedeva domande. L’irritazione del Pd è più controllata. Ma siamo appena all’inizio.


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