LA POSTA IN GIOCO DELLE ELEZIONI

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Non sembra aver innescato quei profondissimi ripensamenti che sarebbero necessari per avanzare ai cittadini proposte realmente credibili. In questo sostanziale vuoto sembrano muoversi molte dinamiche e molte “normali anomalie” di una campagna elettorale che ha talora risvolti surreali: una campagna in cui le battute di Maurizio Crozza inquietano qualche leader più degli attacchi degli avversari.
Registriamo così ogni giorno l’orgogliosa sicumera con cui Berlusconi rispolvera “patti con gli italiani” sprofondati da tempo nell’oblio e nel grottesco, o prendiamo atto di quella “concordia discors” fra contrapposte figure della politica-spettacolo che ci è riconsegnata dai talk show di Michele Santoro, ma non riusciamo a capire perché tutto questo possa essere riproposto con un qualche successo. Perché non sia crollato nei sondaggi un leader che ha portato il Paese alla rovina. Perché possano riaffacciarsi le figure più ridicole o più prive di pudore e credito, da Scilipoti a Storace. E perché sia stato così difficile per il centrodestra escludere dalle liste, e in extremis, almeno due o tre dei candidati più impresentabili. Anche sullo sfondo di questo vi sono sia mali cresciuti nel tempo sia un’assuefazione ad essi che non ha trovato anticorpi adeguati. L’indecente immagine di Berlusconi assopito durante la commemorazione della Shoah rischia così di proporci non solo e non tanto il ritratto eloquente di un leader senza principi e senza valori ma anche l’inquietante metafora di una parte del Paese.
Dove iniziare allora l’opera di risanamento? Quali forze mettere realmente in gioco per dare avvio ad un lavoro di lunghissimo periodo, ad una Ricostruzione economica, civile, politica ed etica? E quando, se non ora?
Nel modo con cui il centrosinistra si presenta agli italiani questa piena consapevolezza sembra spesso mancare. Sembra lontano quel colpo d’ala che sarebbe necessario per avanzare una proposta radicalmente nuova rispetto al passato: ad esempio rispetto alle sue precedenti prove di governo, terminate entrambe — al di là  delle differenze — con pesanti sconfitte elettorali. Sconfitte che lasciarono segni profondissimi, e le cui ragioni non sono certo scomparse dalla memoria dei cittadini: difficile stupirsi, allora, se il Pd fatica ancor oggi a “sfondare” oltre la sua area tradizionale. Quali sono i cardini che differenziano più nettamente e chiaramente il centrosinistra attuale da quello di allora? E quali sono i nuovi, brucianti nodi sul tappeto? Si pensi almeno a quelli su cui possono far leva, strumentalmente, i peggiori populismi e la più nefasta antipolitica: ad es. la “questione Europa”, non affrontabile realmente senza un salto di qualità  complessivo, non solo italiano. O le lacerazioni nel rapporto fra politica e cittadini, che avrebbero imposto da tempo risposte di moralizzazione drastiche ed esemplari. Davvero contro le sirene populiste è adeguato anche su questo terreno l’“usato sicuro”? È sufficiente cioè la riproposizione degli aspetti più presentabili della vecchia politica? Non sembra proprio che sia così. Molte vicende ci ricordano, ad esempio, che nella nostra Repubblica l’occupazione partitica di ogni spazio possibile è male antico e consolidato, largamente precedente alle più recenti degenerazioni e alle indagini giudiziarie, e tale da estendersi anche a chi era stato a lungo escluso dal Palazzo. Lo racconta bene perfino la remota storia del vecchio Pci, coinvolto almeno in parte nella lottizzazione già  al suo primo avvicinarsi all’area del potere: all’indomani delle elezioni del 1976 lo testimoniarono bene le nomine alla Rai, al Monte dei Paschi di Siena e in altre banche (questo giornale fu il più deciso nel segnalarlo criticamente). E dopo il 1989, nello sciogliersi e rifondarsi di quel partito, svanì rapidamente nel nulla la proposta di uscire anche unilateralmente dalle realtà  più abnormi (ad esempio nella sanità ), avanzata addirittura a Congresso dal suo segretario, Achille Occhetto. Alla lunga distanza è facile comprendere quanto sarebbe stato salutare invece accentuare ulteriormente una drastica distanza dalle pratiche e dalle derive di un sistema in sfacelo: pochissime voci, allora, continuarono a chiederlo.
Ancora alla vigilia di Tangentopoli, del resto, Norberto Bobbio scriveva: “Se questa prima repubblica (…) è alla fine, finisce male, malissimo. Per chi come me appartiene alla generazione che ha assistito piena di speranza alla sua nascita, questa considerazione è molto amara. La gestazione della seconda repubblica, se dovrà  nascere, sarà  lunga. Forse non avrò neppur il tempo di vederne la fine. Ma poiché, se nascerà , nascerà  con gli stessi uomini che non solo sono falliti ma sono inconsapevoli del loro fallimento, non potrà  che nascere male, malissimo, come male, malissimo è finita la prima”. Era il 1991, ma Bobbio decise allora di non pubblicare quell’articolo: gli sembrava troppo pessimistico. Più di vent’anni dopo esso ci appare profetico, e attuale.


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