Perché Martini avrebbe apprezzato l’addio

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In essa fra gli strumenti di guarigione nel cristianesimo indicò come primo la «conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi».
È stato un sogno che ha accompagnato i cristiani negli ultimi 50 anni, a partire dal Concilio, la conversione, appunto, secondo la più coerente radicalità  evangelica: cambiamento di mentalità  e purificazione dei cuori. Una scelta che però non va limitata all’intimità  delle coscienze; occorre anzi che si apra a gesti di testimonianza, a scelte concrete che comportino innovazioni, capacità  di mutare in modo profondo la gestione del potere della Chiesa istituzione e organizzazione. Martini è stato uno di quelli che hanno creduto possibile quel sogno di riforma. E ci si è speso. Era fiducioso e contò da subito sul nuovo Pontefice. Lo aveva detto all’indomani dell’elezione di Benedetto XVI che ci si sarebbe dovuti aspettare «belle sorprese» dal Papa che lui stesso aveva contribuito a far eleggere, convinto che la considerazione per l’intelligenza dell’uomo viene prima delle valutazioni su posizioni e atteggiamenti. Tra Martini e Ratzinger, com’è noto, c’è sempre stata una forte stima mai compromessa dalla dichiarata diversità  di opinioni su non poche questioni. Un credito reciproco antico e che non venne intaccato da vedute differenti su numerose questioni, dai ruoli ricoperti all’interno della gerarchia ecclesiastica.
Nella primavera del 2011 ad una lettera affettuosa di Martini Ratzinger rispose con un invito a Roma. Fu un viaggio non facile, per gli impedimenti crescenti del Parkinson sul fisico del cardinale e in particolare sulla voce. Eppure fu un colloquio in cui l’arcivescovo emerito di Milano osò sollecitare «gesti profetici» dal Papa. Confidò al ritorno: «Gli ho detto cose che i suoi collaboratori non gli dicono». Al Pontefice lasciò anche un appunto, che si seppe poi, allo scoppio del Vatileaks, era uscito dalle sacre stanze e circolava. Cosa che non preoccupò più che tanto il cardinale. Si sapeva cosa pensava lui di un certo potere d’Oltretevere. In quei momenti fu sentito dire che certuni si sarebbe dovuti «prendere a calci nel sedere».
A chi in queste ore ha commentato le dimissioni del Papa come un’iniziativa epocale verso il cambiamento del governo della Chiesa non sarà  sfuggito l’accostamento, di nuovo, con l’intervista a padre Sporschill. Martini aveva detto nell’occasione: «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?». Qualche prelato commentò quelle frasi come uno sfogo d’un uomo prossimo alla morte, come dire, allusivamente: forse neanche del tutto in sé. Chissà  se le dimissioni di Ratzinger gli hanno fatto cambiare idea e l’hanno convinto che è davvero l’ora della conversione per i cristiani, se non vogliono divenire irrilevanti per il mondo.


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