Perché non si parla di stipendi

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Tra le tante parole scomparse in questa campagna elettorale, una a sinistra fa più rumore: la parola ‘salari’. Trovarne traccia nelle dichiarazioni pubbliche registrate dall’archivio Ansa somiglia a una caccia al tesoro: da inizio anno, si registrano unicamente gli allarmi dei sindacati, l’indignazione di Antonio Di Pietro e gli strali di Paolo Ferrero, l’unico a essere presente più volte. Per il centrosinistra, figurano solo il responsabile economico Stefano Fassina e l’ex ministro Cesare Damiano. Per il resto, nonostante il frangente non sia certo di parsimonia verbale, il blackout assoluto.

A cercare poi nei programmi delle coalizioni al voto va perfino peggio. In quello del Pdl ricorre una volta («detassazione del salario di produttività »), esattamente come in quello di Monti («decentramento della contrattazione salariale») e del centrosinistra. Che si limita a un laconico e vago «spezzare la spirale perversa tra bassa produttività  e compressione dei salari e dei diritti». Del tutto assente dal programma del MoVimento 5 Stelle, il termine ricorre invece quattro volte in quello di Rivoluzione Civile. Dove si parla di una altrettanto vaga «convergenza fiscale e salariale» ma, quantomeno, si ricorda esplicitamente la realtà : «I lavoratori italiani hanno salari tra i più bassi d’Europa».

Certo, misurare la presenza di un tema in campagna elettorale tramite la frequenza con cui è menzionato è un indice di misurazione approssimativo. Ma l’assenza nel dibattito pubblico di un tema tanto importante per la vita quotidiana dei cittadini è disarmante. Soprattutto a fronte dei dati, che imporrebbero ben altra riflessione. Solo il 28 gennaio scorso, e dunque in pieno periodo elettorale, l’Istat comunicava che nel 2012 in media i salari sono cresciuti dell’1,5 percento. Ma a fronte di un aumento dei prezzi doppio, del 3 percento. Risultato? Un divario a sfavore delle retribuzioni mai così elevato dal 1995. «Significa, tradotto in cifre, che una famiglia di tre persone ha avuto nel 2012 una perdita del potere d’acquisto equivalente a 524 euro», ha commentato il Codacons.

Il tutto mentre, ricordava Eurostat a febbraio 2012, in Italia lo stipendio medio nel 2009 è stato di 23.406 euro: una cifra che ci relega agli ultimi posti in Europa, dove siamo superati non solo dalla Germania, in cui la media è stata 41 mila euro, e dalle prime della classe, Danimarca e Norvegia (rispettivamente 56.044 e 51.343 euro), ma anche dalla Spagna, a quota 26.316 euro in media. Due mesi più tardi, la conferma dell’Ocse: tra i Paesi sviluppati l’Italia è al 23esimo posto su 34. Senza grosse prospettive di miglioramento, peraltro. Come scrive il bollettino economico pubblicato da Bankitalia lo scorso ottobre, infatti, «nel complesso del 2012 e nel prossimo biennio le retribuzioni unitarie di fatto dovrebbero continuare a crescere a un ritmo inferiore a quello dei prezzi al consumo, con una conseguente ulteriore riduzione dei salari reali».

Se a questo si somma una produttività  del lavoro asfittica (e in ulteriore calo, secondo le stime del Conference Board, nel 2013: -0,8%), anch’essa tra le ultime nei Paesi Ocse, e una media di ore lavorate annue già  elevata (1.774, 200 in più rispetto alla media dell’Eurozona e ben 300 aggiuntive rispetto alla Germania), si comprende come il problema vada ben oltre un semplice aumento dei salari, ma coinvolga la competitività  stessa del sistema Italia.

Ci sarebbe di che discutere, insomma. E invece, anche a sinistra, si è giocata tutta la campagna elettorale o quasi sull’Imu. Un aspetto importante della vicenda, certo: perché meno tasse vuol dire più capacità  di spesa. Ma che non può esaurirla. Secondo il segretario generale Cisl, Raffaele Bonanni, per esempio, è quella dei salari «la vera emergenza del Paese». Raggiunto dall’Espresso, il sindacalista aggiunge una amara valutazione sull’assenza del tema nelle settimane di scontro in vista delle urne: «La questione salariale è nascosta», dice, «come è nascosta la questione dell’industria del manufatturiero che ci dà  da vivere. E’ come se la classe politica disconoscesse ciò che fa vivere il nostro Paese».
«Il problema non è specifico dei salari, ma più generale», argomenta Claudio Lucifera, docente di Economia politica all’Università  Cattolica di Milano. Perché «il salario non è come si sosteneva 30 anni fa una variabile indipendente: dipende dal contesto. E’ l’impoverimento del nostro Paese, che procede da una ventina d’anni. E l’allargamento delle differenze sociali. Per un po’ le dinamiche salariali hanno tenuto, soprattutto quelle del pubblico impiego», prosegue, «ma poi negli ultimi anni le condizioni macroeconomiche del nostro Paese non hanno più consentito ai salari di crescere». Per il docente, la questione è che «i salari sono nel lungo periodo ineluttabilmente legati alla produttività , e la produttività  è stagnante. E se ristagna il nostro Paese non cresce, e neanche i salari possono crescere».

Secondo Bonanni, tuttavia, alzare i salari può essere un modo proprio per ridare vigore alla produttività . Ma come? «Con buone relazioni industriali, una revisione forte dei fattori di sistema territoriali, e con meno tasse», risponde. Perché se la produttività , di «sistema» e non solo del lavoro, è al palo, è dovuto certo al livello dell’imposizione fiscale, ma anche alla «scarsa propensione alla gestione delle relazioni industriali – e quindi contrattuali – in azienda». Tema che da anni divide le sigle sindacali. Una divisione, ragiona, che di certo ha pesato anch’essa al raggiungimento di salari tanto esigui.

Certo, c’è chi, come l’economista Tito Boeri, ricorda che i governi non possono decidere di alzare o abbassare i salari a loro piacimento: c’è di mezzo il contratto collettivo nazionale di lavoro, e dunque le parti sociali. Senza contare, aggiunge, che «l’emergenza è la disoccupazione».

Ma nello stesso centrosinistra non manca chi fa autocritica. Stefano Fassina, per esempio: «Non se ne è parlato per niente», dice al telefono, «anche se noi lo abbiamo fatto in modo non visibile sui media, tramite tanti appuntamenti molto partecipati». Il punto, ammette, è che «ne abbiamo parlato in un modo che non è risultato interessante, e purtroppo l’agenda della campagna elettorale è stata fatta da altri temi».

Quanto al programma del centrosinistra, «tutte le proposte dedicate allo sviluppo sono proposte che riguardano i salari. Noi abbiamo parlato generalmente di lavoro», argomenta Fassina, «perché abbiamo un’esplosione della disoccupazione, di cassa integrazione, di persone che non hanno neanche quella o l’indennità  di disoccupazione». Insomma, senza alleggerire l’Imu per le fasce più deboli, correggere la politica economica europea, il pagamento dei 50 miliardi dei debiti della amministrazioni pubbliche verso le imprese e l’allentamento del patto di stabilità  di 7,5 miliardi in tre anni, impossibile mettere mano alle retribuzioni. «Purtroppo non ci sono scorciatoie», ammette Fassina. Specie nel breve periodo.

Eppure a sentire il candidato a Montecitorio di Sel, Gennaro Migliore, le priorità  sembrano diverse: «la prima riforma che va fatta è quella proprio di aumentare i salari», dice rispedendo al mittente l’accusa di non aver affrontato a sufficienza l’argomento in queste settimane, «sia sul versante di un aumento diretto ?€“ e questo ovviamente è legato ai contratti nazionali di lavoro ?€“ sia sul versante indiretto. Perché quando noi diciamo di diminuire le imposizioni fiscali su parte della popolazione, lavoratori dipendenti e pensionati, noi pensiamo sia un aumento di salari».

Ancora, per Migliore vanno inoltre «rafforzati gli strumenti contrattuali». E, giudicando la recente proposta di Barack Obama di alzare i salari minimi da 7,25 dollari l’ora a nove (con il plauso del premio Nobel, Paul Krugman), aggiunge l’idea di un «salario minimo orario garantito», per una cifra che immagina non inferiore ai 10 euro. Ma che non vuole essere altro, precisa, che un punto di partenza per un ragionamento più articolato. Una impostazione comunque differente rispetto a quella di Fassina, che invece passa il tempo della risposta a sottolineare le differenze strutturali tra la situazione italiana e quella statunitense: «Per sua fortuna Obama ha una banca centrale che può svalutare il dollaro e quindi recuperare competivitià  internazionale attraverso la svalutazione della moneta. Noi questo lusso non ce l’abbiamo». Al punto da individuare proprio nello svanire dell’effetto della svalutazione della lira del periodo 1992-1995 l’inizio del calo di produttività  che stiamo testimoniando.

Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista e candidato nelle liste di Ingroia, inserisce invece la mancata tematizzazione dell’argomento in un contesto più ampio: «Il motivo è semplice, ed è che si sta cercando di strutturare l’Europa secondo una divisione interna del lavoro. E’ l’idea di avere al suo interno», spiega, «una zona ad alti salari e alta qualità  del lavoro, e una a bassi salari che funge da serbatoio interno di manodopera a basso costo per lavorazioni dequalificate. Atrimenti non si spiega», conclude, «perché Monti abbia deliberatamente distrutto il mercato interno in quest’anno». Lo stesso Monti con cui potrebbero ritrovarsi a governare alcuni tra coloro i quali vogliono che i salari aumentino, e subito.

Insomma, la confusione è tanta. Il professor Lucifera indica una possibile via d’uscita: l’istituzione di una «Commissione salari minimi, come esiste in molti altri paesi, che si incarichi di fare una ricognizione della struttura salariale e formulare delle proposte». Una commissione indipendente, sottolinea, «che presenti al Parlamento e al governo un rapporto sulla questione salariale, per tutelare per esempio i lavoratori più a rischio di distorsioni salariali al ribasso». Un punto di partenza. A patto che a qualcuno abbia ancora il coraggio di pronunciare la parola proibita.


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