I rischi del presidenzialismo all’italiana

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Nel dibattito in corso sulla situazione post-elettorale sembrano emergere segnali, a mio avviso pericolosi, di crisi — nel senso di messa in discussione — della stessa forma costituzionale di democrazia. Due segnali apparentemente opposti ma convergenti: da un lato riprendono vigore le tesi sulla necessità  di cambiare sistema di governo abbandonando il parlamentarismo, per dare vita a un esecutivo sostanzialmente monocratico che governi senza remore; dall’altro si avanzano tesi di esplicito rifiuto della rappresentanza politica per puntare su forme di democrazia diretta «assolute». Queste ultime tesi — che vanno molto al di là  di una giusta valorizzazione e di un auspicabile potenziamento degli istituti di partecipazione e di democrazia diretta, come il referendum — sembrano affiorare, più che nei programmi e nelle esplicite regole di comportamento del Movimento 5 Stelle, in certe affermazioni o intendimenti emersi in questo ambito (si vedano le puntuali considerazioni critiche di Giovanni Belardelli sul Corriere del 6 marzo). Sembra che si immaginino parlamentari eletti che non decidono nulla ma eseguono le decisioni che loro pervengono attraverso un «gruppo di comunicazione», il quale veicolerebbe decisioni prese, attraverso le risorse della «rete», in sedi esterne al Parlamento, e cioè da tutti i cittadini che fanno parte del Movimento, con modalità  però soggette al governo di un «capo» (Grillo, o chi per lui) che controlla il centro del sistema di comunicazione.
Questa visione è «antiparlamentare», nella misura in cui — contestandosi, conseguentemente, la rappresentatività  degli eletti, che non agirebbero più «senza vincolo di mandato» — il ruolo stesso del Parlamento e dei suoi componenti verrebbe svuotato. Ma non è meno «antiparlamentare» la visione, opposta ma convergente, di chi ritiene che la discussione parlamentare sia un orpello inutile e atto solo a ritardare i meccanismi di decisione, che andrebbero affidati invece a un «capo» (ancora una volta) eletto a termine e dotato non solo dei tradizionali poteri esecutivi e di iniziativa «privilegiata» propri del Governo, ma sostanzialmente di tutti i poteri, attraverso il controllo stretto di una maggioranza parlamentare precostituita in modo non solo omogeneo, ma sostanzialmente «servente» nei confronti del capo.
Questa è la tendenza, affiorante specie, ma non solo, nell’ambito del centrodestra, al «presidenzialismo all’italiana», che dimentica il carattere «diviso» e dialettico del vero presidenzialismo (basta pensare al rapporto, oggi, fra Obama e il Congresso Usa) per sognare un Presidente che non debba trattare con nessuno, nemmeno con la «propria» maggioranza, la quale dovrebbe essere costruita e funzionare al suo esclusivo servizio. Anche qui, siamo ben al di là  delle opportune misure dirette a rendere più efficiente il Parlamento, rivisto nella sua struttura bicamerale e messo in grado di operare in base a procedure certe e in tempi ragionevoli.
Ecco perché credo che sarebbe tutt’altro che «virtuoso» il prospettato scambio fra un nuovo (e auspicabile) sistema elettorale a doppio turno per la formazione delle Camere (o della Camera «politica») e l’accettazione di un «presidenzialismo all’italiana», che avrebbe le caratteristiche di cui sopra. Prima di dire (implicitamente) che il Parlamento è inutile, sarebbe il caso di riflettere a ciò che in altri momenti della storia è nato dagli umori antiparlamentari.
* Presidente emerito  della Corte costituzionale


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