La «nuova sinistra» nell’era di Xi Jinping

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PECHINO. Un fantasma si aggira per l’Assemblea Nazionale cinese. È identificabile in un volto, quello di Bo Xilai e in una corrente che negli ultimi tempi aveva saputo catturare l’attenzione in Cina, la «nuova sinistra». Che fine faranno le istanze di quei pensatori cinesi scettici rispetto alle svolte neo liberiste e attenti all’intervento dello stato nell’economia? Secondo Wen Jinyuan, ricercatore presso l’Università  del Maryland e autore con il professor Charles W. Freemann di The influence and the illusion of Chinese New Left (Washington Quarterly, 2012) «l’influenza della sinistra rispetto alla leadership di Pechino diminuirà  a causa della caduta in disgrazia di Bo Xilai. In primo luogo perché Bo è stato l’unico uomo politico cinese che apertamente ha fatto riferimento alla “nuova sinistra”. Con la sua caduta – specifica Wen Jinyuan a Il Manifesto – l’ideologia della sinistra non sarà  più attraente per la leadership cinese centrale. In secondo luogo alcuni esponenti della “nuova sinistra” hanno ricevuto un sostegno finanziario da Bo per condurre le loro ricerche accademiche. Mi riferisco ad esempio a Kong Qingdong , un professore all’Università  di Pechino, che ha ammesso di aver ricevuto 1 milione di yuan (159mila dollari ndr) da Chongqing come fondo di ricerca. Ci sono anche molte voci che attribuiscono finanziamenti provenienti da Bo Xilai per siti come Utopia (uno dei siti internet più noti nella galassia della nuova sinistra ndr). Con la caduta di Bo, molti studiosi potrebbero trovarsi ad affrontare una carenza di sostegno finanziario per continuare le loro ricerche finendo per perdere il favore da parte del governo cinese».
Una questione economica, come al solito in Cina, verrebbe da pensare. Eppure gli esponenti della «nuova sinistra» cinese da anni avevano indagato la realtà  nazionale con spunti «globali», capaci di collegare più che mai la Cina con il mondo. Del resto, la crisi del sistema neoliberista e con esso le difficoltà  della rappresentanza politica, con partiti e mezzi di comunicazione in grado di esprimere solo le spaccature all’interno del corpo sociale, ma non a raffigurarlo a pieno, è un argomento molto sentito. Non solo in Italia, perché anche in un paese come la Cina, che non rappresenta ai nostri occhi una democrazia come la intendiamo in Occidente, questi processi sono al centro di un dibattito intenso, all’interno del quale le frazioni mischiano politica, approcci culturali ed economici.
Questo nesso tra economia, crisi della rappresentanza, crisi dello stato e avanzata neoliberista che accade in chissà  quanti paesi, è presente anche in Cina. E la sua consacrazione o esplosione, è arrivata con lo shock del caso Bo Xilai – ex stella nascente del Partito, epurato, espulso e in attesa di processo – che ha frantumato quel magma complesso e indistinto che siamo abituati a definire, seppure sia apparentemente imperscrutabile con le nostre categorie di pensiero, la «nuova sinistra cinese». Si tratta di un insieme di professori, politici, attivisti radunati intorno ad un’idea che oscilla tra maoismo, socialismo liberale e liberalismo democratico, che ha saputo catalizzare un dibattito politico riguardo il futuro della Cina e che è finito nell’occhio del ciclone quando uno dei suoi esponenti – o presunto tale – Bo Xilai e il suo modello Chongqing, è stato messo fuori gioco dalla guida collettiva del Partito comunista cinese.
Che la Cina abbia bisogno di riforme è fuori discussione. E che lo shock provocato dal trauma Bo Xilai possa aprire una stagione in cui il capitalismo cinese si affiderà  a svolte neoliberiste sembra altrettanto chiaro: il rapporto China 2030 della Banca Mondiale, con il beneplacito del governo cinese parla chiaro. Riforme e liberalizzazione finanziaria, privatizzazione di aziende di stato e terre (come specificato su Alias dell’aprile 2012 da Wang Hui, uno degli esponenti di punta della nuova sinistra cinese): si tratta di un trend confermato dal nuovo corso di Xi Jinping e compagnia, radunato in questi giorni nell’annuale assemblea legislativa. In tutto questo programmare un nuovo modello obbligato, vista la crisi mondiale e il ricorrere a ricette che quella crisi hanno creato, una componente importante del mondo intellettuale cinese si ritrova a dover ripensare a se stessa, tra afflato globale, caratteristiche locali e una dura lotta politica che al momento sembra aver messo in difficoltà  quella che definiamo «la nuova sinistra cinese».
Bussare alla porta del potere
Li He, professore di Scienze Politiche, nel suo China’s new left and its impact on political liberization (EAI, 2008) accenna che la forza di quell’insieme di studiosi raccolti intorno al nome di «nuova sinistra» (xin zuopai in cinese) era stata capace di bussare direttamente alla porta del potere più grande in Cina. Hu Jintao nel 2005 – quando era presidente – avrebbe condotto una personale battaglia contro il «reaganismo» di Jiang Zemin, citando proprio i dettami della nuova sinistra, che di fronte all’epoca delle liberalizzazioni seguite alle Riforme lanciate da Deng Xiaoping, richiedevano una maggiore presenza dello stato per riequilibrare una diseguaglianza sempre più notevole (la famosa «armonia» di Hu Jintao). Cos’era accaduto infatti negli anni precedenti? La Cina aveva avviato le Riforme, ovvero una delle più grandi operazioni neoliberiste di tutti i tempi. In seguito alle privatizzazioni della terra, dal 1980 al 2000 i lavoratori non agricoli come quota di occupazione totale della Cina, sono passati dal 31 per cento al 50 per cento, aumentando al 60 per cento nel 2008. Secondo un rapporto dell’Accademia delle scienze sociali cinese nel 2002, circa l’80 per cento della forza lavoro non agricola «era costituito da lavoratori salariati proletarizzati, come ad esempio i lavoratori industriali, addetti ai servizi, impiegati e disoccupati». «Il rapido accumulo capitalista della Cina – scrive Minqi Li, uno degli esponenti dell’ultrasinistra, in The Rise of the Working Class and the Future of the Chinese Revolution (Monthly Review, 2011)- si è basato sullo sfruttamento spietato di centinaia di milioni di lavoratori cinesi. Dal 1990 al 2005, il reddito da lavoro in Cina, in percentuale del Pil, è sceso dal 50 al 37 per cento. Il salario dei lavoratori cinesi è circa il 5 per cento di quello statunitense, il 6 per cento rispetto alla Corea del Sud». Dall’inizio degli anni 80, circa 150 milioni di lavoratori migranti si sono spostati dalle zone rurali verso le aree urbane in cerca di occupazione. Di fronte a questo cambiamento storico, che avrebbe dato il via alla «fabbrica del mondo» e all’arricchimento dei funzionari cinesi, la Nuova Sinistra trova linfa. È necessario tuttavia precisare alcuni elementi: innanzitutto «nuova sinistra» è un termine che venne coniato dagli avversari di quei pensatori che sono solitamente considerati interni alla new left cinese. Di fronte alla pubblicazione dell’articolo di Cui Zhiyuan, L’innovazione istituzionale e la seconda liberazione del pensiero (Zhidu chuangxin yu di’erci sixiang jiefang) Ershiyi shiji, 1994 nel quale si richiedeva una svolta liberale con il ritorno dello stato ad un peso influente, alcuni studiosi di «destra» classificarono Cui, con accezione negativa, come membro della «nuova sinistra».
Il modello Chongqing
Di fronte quindi all’emergere di Bo Xilai come catalizzatore politico della nuova sinistra cinese, i media hanno finito per confondere neomaoismo e nuova sinistra, commettendo un errore non da poco. Basti considerare che alcuni studiosi come Wang Hui sono poco propensi all’utilizzo del termine «sinistra», proprio perché troppo esplicitamente riferito a Mao, preferendo il termine liberali di sinistra (ziyou zuopai). È pur vero però che si può evidenziare la presenza di una nuova sinistra radicale (ji zuopai) di matrice più chiaramente marxista e impegnata a rivalutare un fenomeno considerato solitamente negativo come la Rivoluzione Culturale.
Queste diverse correnti possono essere accomunate da un elemento, ovvero la necessaria presenza dello stato nell’economia come salvagente per l’uguaglianza e i diritti. Un punto di partenza dal quale si snodano teorie diverse. Il «modello Chongqing» con uno stato molto attento alle politiche sociali e uno spazio comunque garantito al privato, rispondeva al concetto di guojin minjin («stato e settore privato avanzano insieme») tanto caro alla sinistra. «Per quanto riguarda il modello di Chongqing – spiega Wei Jinyuan a Il Manifesto – il modello stesso si è dissolto, ma alcune delle iniziative politiche, come ad esempio la dipendenza delle imprese di proprietà  statale, potrebbe continuare in quanto Bo non è l’unico uomo politico cinese che favorisce l’espansione delle aziende di stato. Zhang Dejiang, il vicepremier che ha sostituito Bo come nuovo capo del partito di Chongqing, ha un ampio rapporto con aziende di stato, in particolare nel settore industriale, e ha preferenze politiche simili a Bo al riguardo». E sulle aziende di stato si giocherà  una sorta di partita vitale per la «nuova sinistra», perché i grandi agglomerati statali sono finiti ormai nell’occhio del ciclone. Hu Angang, uno degli economisti più noti e considerato in area «nuova sinistra», ha recentemente difeso le grandi aziende statali (La Riforma della Imprese di stato, china-files.com) preparando il terreno ad uno scontro teorico che sarà  fondamentale per il futuro del paese: «La rapida ascesa della Cina – ha scritto – ha fornito alle imprese statali cinesi una possibilità  di sviluppo senza precedenti; allo stesso tempo, la rapida ascesa delle imprese statali cinesi ha fornito un enorme contributo alla rapida ascesa della Cina».


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