Marò, Delhi minaccia sanzioni

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Il parlamento indiano è in fermento, tra interrogazioni e minacce di decisioni formali. Mentre l’avvocato che assisteva l’Italia nel caso dei due fucilieri, Harish Salve, ha lasciato il suo incarico La vicenda è davvero bollente. E chi conosce il linguaggio personale e politico di Manmohan Singh, il primo ministro indiano di poche e pesatissime parole, sa misurare quanto ieri ha detto il capo del governo indiano in parlamento. Un discorso che, spezzato in brevissimi mini-messaggi, Twitter ha rapidamente veicolato nel mondo. Proprio quello che Singh desiderava e che fa del caso marò un fatto non solo strettamente indo-italiano ma un manifesto dell’orgoglio nazionale: «Il nostro governo ha già  reso noto che questa decisione è inaccettabile – ha detto il premier ai parlamentari (ma queste parole le aveva già  pronunciate a caldo) – ha violato ogni regola diplomatica il che non è nell’interesse di relazioni bilaterali che si basano sulla fiducia. E – ha aggiunto – mentre incitiamo a rispettare gli accordi presi davanti alla Corte suprema e chiediamo il ritorno delle persone accusate, cosa che continueremo a fare attraverso i canali diplomatici, se non terrà  fede ai suoi impegni, per l’Italia ci saranno conseguenze».
Il tono è secco e deciso sull’affaire che la stampa indiana definisce «An Italian Job» e non è solo un messaggio rivolto a Roma o al resto del mondo. Singh, che rappresenta un Partito del Congresso che è nel pieno delle polemiche sulla corruzione, sullo scandalo Agusta-Finmeccanica per non parlare delle proteste per gli stupri, cerca di rispondere alle accuse che provengono da tutta l’opposizione, Bjp – i nazionalisti indù – in testa, a un anno dalle prossime elezioni.
Sono stati i nazionalisti, secondo partito indiano, i primi a chiedere la testa di Daniele Mancini, l’ambasciatore italiano che ha firmato l’impegno di Roma per ottenere la concessione ai due marò di tornare in Italia. Ma adesso il Bjp sostiene che il governo deve dimostrare di non aver in realtà  sottoscritto un patto occulto. «Non tanto – spiega una fonte diplomatica indiana – in merito a un supposto scambio di favori nel caso Agusta per cui, come certa stampa ha suggerito, l’Italia ha inviato carte sull’affaire e in cambio Delhi ha lasciato andare i marò: un’ipotesi tutto sommato debole.
Quel che che l’opposizione vuol sapere è se non ci sia stato un accordo sottobanco. Ed effettivamente – conclude la fonte – se Roma avesse rispettato gli impegni, «piano piano» (sul documento è scritto in italiano) le cose si sarebbero aggiustate, con permessi sempre più lunghi. Adesso invece l’opposizione fa questione proprio su quei permessi: «Quattro mesi per votare?», si chiedono a Delhi. «Sono troppi», ammettono le opposizioni. Ciò che ha indispettito gli indiani – aggiunge la fonte – è che la richiesta italiana di arbitrato «sia stata fatta mentre i marò erano già  in Italia». Su questo il governo non può perdere la faccia, dice la stampa indiana, che dà  alla possibile espulsione di Mancini qualche chance. Secondo la nostra fonte però, dichiararlo persona non grata, cioè espellerlo, sarebbe una «misura estrema» (ieri Mancini ha detto che non lascerà  l’India se non sarà  considerato tale). È più probabile invece un «congelamento delle relazioni che però danneggerà  pesantemente gli investitori italiani in India».
Il parlamento scalpita: interrogazioni, dichiarazioni al calor bianco, una possibile accelerazione di atti formali. Intanto, l’avvocato indiano che assisteva l’Italia, Harish Salve, al top tra i legali del subcontinente, ha lasciato il suo incarico, indispettito che Roma non lo abbia informato preventivamente di voler trattenere i marò, cosa che gli fa perdere la faccia tanto quanto al governo. A suo dire, comunque, Mancini dovrà  andare davanti alla Corte suprema per giustificare il fatto che l’impegno non è stato onorato e in questo caso, ha sottolineato la diplomazia indiana, non potrà  invocare l’immunità  diplomatica. In compenso il legale dei marò ha escluso qualsiasi accordo sottobanco tra Delhi e Roma. La stessa smentita che gira nei corridoi della Farnesina, dove il corpo diplomatico si mostra, almeno all’esterno, compatto. Terzi – dicono – ha fatto bene, anche se, dice qualche voce critica, poteva far meglio. «Ad esempio spiegando che in India vige la pena capitale, un elemento che obbliga l’Italia a non restituire un prigioniero. E poi ricordando che in questa vicenda dei due marinai italiani ci sono anche due pescatori indiani, cosa di cui non si è fatta menzione».
Per ora dunque in India si affilano i coltelli. Ma all’ambasciata di Roma stanno con la bocca cucita. Del resto l’ambasciatore indiano a Roma, Debarata Saha, cui era toccata la patata bollente dell’omicidio dei due pescatori, è andato in pensione in dicembre e il nuovo, Basant Kumar Gupta, già  nominato e «gradito» alle autorità  itlaiane, non è ancora arrivato. Toccherà  a lui gestire il possibile futuro congelamento delle relazioni. È un «senior» nella diplomazia indiana con molti incarichi alle spalle, l’ultimo dei quali come responsabile al ministero degli Esteri di tutta la sezione passaporti e visti.
Sul caso dei due marò, Delhi sembra voler andare fino in fondo ma è ancora tutto da decidere.


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