Nel voto segreto 60 anni di veleni

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L’interrogativo è: quanti saranno? Sul fatto che l’elezione al Quirinale verrà  segnata anche dall’incubo dei franchi tiratori, infatti, è difficile avere dubbi. È sempre andata così. Sempre. Perfino Carlo Azeglio Ciampi, che sulla carta doveva far cappotto appoggiato com’era da destra e sinistra, fu costretto a contarne 185. E oggi è tutto più difficile…
Franco Marini, poi, l’ha già  vissuto il patema di un voto avvelenato da piccole furbizie all’arsenico. Era la fine di aprile del 2006, era il candidato del centrosinistra alla presidenza del Senato, la destra ebbe l’idea di mettergli contro Giulio Andreotti contando proprio sulle sbandate dei vecchi democristiani. E per quattro interminabili votazioni dall’urna dell’aula di Palazzo Madama spuntò di tutto. Schede con scritto solo «Marini» impossibili da accettare perché c’era anche un senatore di nome Giulio Marini e poi «Franco Marino» e «Franco Mariti» «Francesco Marini» e via così… Ne nacque addirittura una definizione beffarda: «i franceschi tiratori».
Tutti puntarono il dito sulla pattuglia di senatori di Clemente Mastella, che già  l’aveva messa giù dura anni prima alla vigilia dell’elezione di Ciampi: «Vorrei ricordarvi solo che Forlani non fu eletto per 29 voti e noi siamo di più». Lui si schernì ammiccando di non saper niente degli agguati elettorali, rivendicando ruoli di governo («Ho chiesto la Difesa e non transigo») e lanciando velati messaggi: «Mi sto bertinottizzando». Riuscì a passare, alla fine, l’ex sindacalista ed ex segretario del Partito popolare che gli amici chiamano affettuosamente «scintillone» prendendo a prestito il personaggio di un film con Jean Claude Brialy. Ma quella sofferenza e quella vittoria risicata avrebbero pesato assai sul (breve) futuro della legislatura.
Il guaio è che l’avveniristico pallottoliere elettronico con il quale moltitudini di esperti si avventurano nei calcoli più raffinati non può tenere conto, esattamente come i pallottolieri di una volta, del vecchio fattore «effetì». Che in quasi tutte votazioni per la presidenza della Repubblica ha avuto un ruolo determinante.
Sono defunti la prima Repubblica e la Dc e il Pci, il Psi e il Pri, il Psdi e il Psiup e perfino Forza Italia, il Pds e Alleanza nazionale, e sono apparsi e transitati e spariti nel firmamento astri luminosi come Antonio Di Pietro e Mario Segni, ma poi ti accorgi che pare rimasto tutto come mezzo secolo fa, nel 1964. Quando Carlo Donat-Cattin, per spiegare ai suoi che Aldo Moro e la sinistra democristiana avevano deciso di far fuori il candidato ufficiale Giovanni Leone (che avrebbe confidato poi a Indro Montanelli di essere caduto nel trabocchetto «con la più stupida innocenza») riassunse le strategie così: «I mezzi tecnici sono tre: il pugnale, il veleno e i franchi tiratori».
«Una razza di deputati bastardi che affiorano nelle zone paludose del nostro ordinamento parlamentare»: così li definiva Bettino Craxi. Ne fece le spese per primo, nel ‘55, l’allora presidente del Senato Cesare Merzagora. Avrebbe ricordato diverso tempo dopo Andreotti: «Andai da lui. “Scusa, gli dissi, io ho vent’anni meno di te e tu mi potresti dire di farmi i fatti miei. Però lascia che ti dia un consiglio: non esporti, altrimenti non riesci”. “Ma Fanfani e Scelba”, rispose, “mi hanno assicurato che ho l’appoggio di tutto il gruppo”. “Quando te lo dicono in troppi è meglio diffidare”, replicai io, andandomene. La verità  è che lui invitava a pranzo tutte le settimane il capogruppo comunista Mauro Scoccimarro, e siccome quello era molto gentile lui si era illuso di avere anche l’appoggio del Pci. Confondeva la cortesia con i voti…» Si sentiva già , in cuore suo, al Quirinale: la scoperta di avere solo 228 dei 372 voti democristiani fu tremenda. E peggio andarono la seconda e la terza votazione: «Mi son fatto giocare», avrebbe confidato amaramente Merzagora, «come un bambino a moscacieca».
E così andò ad Amintore Fanfani, che dopo aver giocato coi franchi tiratori contro Carlo Sforza (che pare avesse già  scritto il discorso di insediamento al Colle) e contro Giovanni Leone (destinato più tardi a prendersi la rivincita) per tre volte fu candidato per tre volte impallinato. Con il sovraccarico dello sberleffo, un biglietto nell’urna che diceva: «Nano maledetto / non sarai mai eletto». Dettaglio che spinse l’allora senatore socialista Lino Jannuzzi a ridacchiare maligno delle divisioni interne della Balena Bianca: «Per eleggere Fanfani ci vorrebbero le schede trasparenti, come in Cecoslovacchia».
E poi toccò ad Arnaldo Forlani, fermato dai cecchini «amici» della Dc e del Psi di Craxi con il quale aveva stretto l’accordo («colpirono lui per colpire Bettino», avrebbe spiegato Gennaro Acquaviva) nonostante godesse in teoria di una maggioranza che pareva straripante. E poi a Sebastiano Vassalli, che a Forlani era subentrato e fu abbattuto dai pallini di 180 franchi tiratori. Una vendetta che i capigruppo socialisti Salvo Andò e Fabio Fabbri commentarono ironici così: «Siamo particolarmente grati alla Dc per aver sostenuto con esemplare lealtà  e coerenza la candidatura di Vassalli. Assicurandogli la metà  dei suoi voti».
E insomma, come avrebbe spiegato a Sebastiano Messina il vecchio «zio Giulio», che oggi dovrebbe mancare le prime elezioni della sua vita dopo avere eletto undici capi dello Stato, «il candidato ufficiale non viene eletto mai, o quasi mai, perché nel voto segreto c’è la reazione dei peones contro le segreterie di partito. L’uomo che viene scelto grazie a intese dei vertici non riesce. Certo, ci sono state eccezioni. Ma si è trattato, appunto, di eccezioni». Lo stesso Francesco Cossiga, nonostante lo schieramento larghissimo a sostegno, ne contò 140, di cecchini «amici».
Ed è per questo, potete starne certi, che Franco Marini, pur essendo un montanaro abruzzese del tutto estraneo alle paranoie della Smorfia, starà  toccando ferro. Gliel’avevano già  mezzo promesso una volta, il Colle. Poi andò come andò. Che sia la volta buona?


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