I chierici senza memoria

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Verso la fine del 2012, mentre la crisi dell’Eurozona toccava di nuovo l’apice, diversi giornalisti della stampa tedesca mettevano in guardia i loro lettori su un aspetto della crisi che, fino a quel momento, aveva ricevuto scarsa attenzione. Infatti, se con la crisi dell’euro, erano emersi il fallimento dei banchieri centrali dei paesi europei, i burocrati greci, gli evasori italiani, Angela Merkel (dipende dai punti di vista), non era però emerso il generale fallimento degli intellettuali. Perché gli intellettuali non avevano difeso le grandi conquiste dell’integrazione europea? Perché non avevano espresso alcuna visione positiva del futuro del continente, invece di dilapidare il grande patrimonio di fiducia e di comprensione tra gli europei, coltivato nel corso dei decenni? Che cosa facevano? Dormivano nonostante la crisi che sarebbe potuta sfociare nel ritorno odioso di nazionalismi o addirittura di conflitti armati.(…)
La morale di Bruxelles
Qualcuno potrebbe trovare questa visione del ruolo degli intellettuali un tantino deprimente. Non dovrebbero essi combattere per essere qualcosa di più, rispetto a ciò che negli Usa viene spesso genericamente chiamato «intellettuale pubblico» (definizione con cui gli americani intendono semplicemente gli accademici che si rivolgono a un pubblico istruito), in una parola, l’esperto? Niente affatto. Il punto è che gli intellettuali, che svolgono il ruolo qui prospettato, non dovrebbero essere soltanto impegnati in quella che i francesi, con espressione meravigliosa, chiamano «volgarizzazione»; dovrebbero anche valutare le argomentazioni normative, affinché i cittadini europei siano in grado di elaborare propri giudizi morali e politici sulla destinazione finale di quel loro «oggetto politico non identificato». Vale a dire, chiarificazione e giustificazione pubblica dovrebbero viaggiare assieme. Questo è anche un ruolo democratico: non si tratta di scatenare entusiasmi per una visione particolare (cosa che gli addetti alle pubbliche relazioni dell’Ue cercano a volte di fare con i ben noti risultati disastrosi: si veda per esempio il video sulla superdonna bianca europea che soggioga svariati barbari – asiatici, neri, arabi – tramutandoli, guarda un po’, nelle stelline gialle della bandiera europea). Si tratta piuttosto di rendere chiare le opzioni e il loro significato dal punto di vista morale, per poi lasciare la decisione ai popoli d’Europa.
L’esempio tipico di questo genere di lavoro sono gli interventi di Jà¼rgen Habermas che non è soltanto l’intellettuale europeo più importante, ma anche l’intellettuale che più si dedica al significato dell’Ue e ai suoi futuri potenziali. I dettagli delle analisi di Habermas possono risultare provinciali dal punto di vista intellettuale (Perry Anderson ha recentemente notato come, nell’ultimo saggio di Habermas sull’Europa, tre quarti dei riferimenti siano ad autori tedeschi e il resto ad angloamericani; come a dire che, nel resto d’Europa, gli intellettuali non esistono). Si può criticare Habermas per la sua disattenzione verso l’esperienza di vita degli europei nel continente. Si possono trovare le sue soluzioni irrimediabilmente idealistiche. Eppure rimane il fatto che esiste un intellettuale che cerca in buona fede di imparare dagli esperti, di spiegare ciò che lui ritiene, giusti o sbagliati che siano, essere le conquiste, i difetti e il potenziale normativo dell’Unione, e dunque di promuovere un serio dibattito politico. In altre parole, si può rifiutare il contenuto di quanto propone Habermas, e comunque trovare convincente il modello che ci fornisce per l’impegno intellettuale verso l’Europa. (…)
La disciplina dello Stato
Per quanto riguarda la creazione di una sfera pubblica autenticamente europea, non esiste una panacea. Si può solo sperare che i singoli individui diventino più curiosi, più disposti a capire quanto quest’opera di traduzione e di mediazione sia feconda. Il tutto può suonare ovvio, ma è davvero un obiettivo urgente, in particolar modo in questa congiuntura critica, ma non solo. Prendiamo un esempio banale: i tedeschi (e altri «nordici») devono comprendere la storia della guerra civile greca, il modo in cui lo Stato greco è stato usato per pacificare una società  profondamente polarizzata, e come i soldi europei sono serviti a creare una classe media che aiutasse i partiti a rimanere al potere, ma che diminuisse anche i pericoli di un rinnovato conflitto sociale (sia chiaro, nessuna di queste ragioni giustifica la corruzione e uno Stato che in generale non funziona). Al contrario, sarebbe utile che gli osservatori al di fuori della Germania facessero un po’ i conti con la particolare forma di economia liberale che, per molto tempo, ha animato le politiche di Bonn e di Berlino: quella strana cosa chiamata «ordoliberalismo», i cui portavoce si consideravano i veri «neoliberisti» – liberisti che avevano appreso le lezioni della Grande Depressione e dell’ascesa delle dittature nel XX secolo, e che infatti non volevano che il liberismo fosse ridotto a mero laissez-faire. Secondo loro, i sedicenti neoliberisti come Ludwig von Mises non erano che «paleoliberisti», rimasti fermi, quanto ad autoregolamentazione dei mercati, alle ortodossie ottocentesche. I neoliberisti tedeschi, d’altra parte, volevano uno Stato forte, capace e disposto non solo a fornire un sistema di riferimento per i mercati e per la società , ma anche a intervenire nei primi per assicurare competizione e «disciplina». Di nuovo, comprendere tali idee non significa accettarle (con l’ordoliberalismo, in particolare, ci sono buone ragioni per sospettare che nascondesse un lato illiberale, se non autoritario).
L’anomalia magiara
In un dibattito più produttivo e più sofisticato per riflettere meglio sulla politica e, naturalmente, sull’economia, non si possono ignorare le profonde diversità  dei punti di partenza nazionali. In questo senso, i «chiarificatori» devono lavorare insieme agli «esplicatori», cioè a quegli intellettuali che spiegano le proprie tradizioni a chi, al di fuori dei confini nazionali, non le conosce.
Si potrebbe obiettare: tutto qui? Chiarire e spiegare? Ma così il dibattito europeo non diventerebbe solo la somma di quanto gli «esplicatori»” di ogni nazione si dicono l’un l’altro? C’è sicuramente anche altro, ma questi due sono gli impegni più urgenti. Ogni generazione se li deve assumere in modo nuovo, e non per rispondere a una sfida particolare, ma almeno per preparare meglio il pubblico a reagire alle crisi, specialmente a quelle politiche.
Il che mi porta all’ultimo punto, quello sulle crisi politiche che ci riguardano tutti: se l’Unione Europea è un sistema di governo e se essere cittadini europei significa qualcosa, allora non esistono più affari interni di singoli stati nazionali che gli altri europei non siano legittimati a discutere o a giudicare. E se in un qualsiasi Stato europeo la democrazia e lo Stato di diritto sono minacciati, allora tutti gli intellettuali europei hanno il dovere di lanciare l’allarme.
Caso evidente è l’Ungheria, che potrebbe facilmente diventare il primo Stato membro a ricevere pesanti sanzioni dall’Ue per il suo arretramento verso una forma di illiberalismo. Di fronte alle aspre critiche del Parlamento e della Commissione europei, il primo ministro ungherese Viktor Orbà¡n ha evocato l’immagine di un complotto transnazionale di sinistra, capeggiato da gente dello stampo di Daniel Cohn-Bendit, che trama contro i valori propugnati da Orbà¡n e dai suoi alleati: orgoglio nazionale, cristianità , concezione tradizionale della famiglia. Non solo Orbà¡n – uno che nei conflitti e nelle polarizzazioni ci sguazza – ha cercato di dare vita, all’interno del suo Paese, a una Kulturkampf onnicomprensiva; ha anche cercato di dividere l’Europa nel suo complesso tra una sinistra liberale, che sembra includere figure in teoria conservatrici come Manuel Barroso (un ex maoista, a dire il vero), e quella che, poco tempo fa, lo stesso Primo ministro ungherese ha chiamato Europa «nascosta» o «segreta» – un’Europa in linea con i valori del suo partito, ma che non osa pronunciare il proprio nome. È forte la tentazione di considerare auspicabile un conflitto del genere, anche se si dissente da tutto ciò che Orbà¡n sostiene: non potrebbe essere un’astuzia della storia dell’integrazione europea se un conflitto transnazionale di questo genere producesse un’Europa più unita?
Un cattivo universale
Un pensiero del genere potrebbe risultare troppo dialettico, perché ci sono in agenda questioni più urgenti, e anche perché i benefici a lungo termine, prodotti dal progresso degli alti ideali dell’unità  europea, non possono giustificare la sofferenza attuale degli ungheresi. Lo scopo primario della lotta per i tanto decantati «valori europei» è senza dubbio che questi valori possano, lungo la strada, diventare più chiari e, in ultima istanza, ulteriormente radicati, anche se questo scopo fosse ottenuto come effetto secondario di qualcos’altro. Spetta agli intellettuali europei spiegare perché, ad esempio, una certa interpretazione europea condivisa dello Stato di diritto non sia un approccio partigiano o provinciale a un valore universale da cui si può deviare in nome della «diversità » e del «pluralismo».
Questa battaglia intellettuale è stata resa ancora più difficile dal fatto che, sull’onda del fallimento della Costituzione europea, le élite politiche europee hanno deciso di darsi molto da fare per sottolineare che l’Ue si fonda sulla diversità  e sui singoli percorsi di ogni Stato membro verso la democrazia e verso la propria felicità  nazionale. Si tratta di una retorica dissennata che mira a lenire i timori di un «super-Stato europeo», ma che, nei fatti, ha dato carta bianca a gente come Orbà¡n.
Diversità  e pluralismo non sono valori equiparabili a libertà  e democrazia. Tutto dipende dalla risposta alla domanda: «Diversità  rispetto a che cosa?» Libertà  e democrazia sono ciò che gli intellettuali europei devono difendere, se è necessario. Nel resto del tempo, dovrebbero proseguire nel loro compito di chiarire e spiegare. Per parafrasare à‰mile Zola, l’uomo che rese popolare il termine «intellettuale» nell’Europa di fine Ottocento: Allons travailler !

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SCAFFALI
In cerca della cittadinanza nell’Europa che non c’è

Il testo qui anticipato esce nel numero 115 di Lettera Internazionale. L’autore, Jan-Werner Mà¼ller, insegna Teorica Politica alla Princeton Univeristy ed è co-fondatore dell’«European College of Liberal Arts» (Ecla) di Berlino. Tra i suoi libri ricordiamo «L’enigma democrazia» (Einaudi; «A Dangerous Mind: Carl Schmitt in Post-War European Thought» (Yale University Press). Il numero della rivista è dedicato al rapporto tra Storia e memoria, tra cittadinanza e intellettuali. Tra gli altri autori del numero 115: Esther Benbassa, Pierre Nora, David BIdussa; Carlo Galli; Francesco M. Biscione; Fabio Nicolucci; Herta Mà¼ller; Marina Abramovic; Luca Paulesu; Luciano Canfora; Giancarlo Schirru; Sandro Mezzara e Paolo Capuzzo; Gayatri Chakravorty Spivak.
(www.letterainternazionale.it).


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