IL GARIBALDI DI PALERMO UN TEATRO DA SALVARE

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In un giorno del 1996 ero andato a vedere Carlo Cecchi, l’attore e regista fiorentino, che recitava al teatro Biondo di Palermo Finale di partita di Beckett. In sala ci saranno stati non più di trenta o quaranta spettatori che sonnecchiavano, uno si era messo a sgranocchiare noccioline e patatine e Cecchi gli aveva fatto il verso. Un altro tossiva forte e lui aveva interrotto la recitazione aspettando che finisse, con aria di ironica sufficienza. Era uno spettacolo nello spettacolo. O forse era quello lo spettacolo.
Qualche giorno più tardi ho incontrato il suo accompagnatore palermitano, Matteo Bavera, un uomo di teatro che ha lavorato con Carmelo Bene e Leo De Bernardinis. Tutto eccitato mi raccontava come il giorno prima lui e Cecchi fossero andati a vagabondare per le stradette della Kalsa, famoso rione popolare al centro di Palermo, alla ricerca di uno spazio molto differente da quello offerto dal teatro Biondo per mettere in scena il Filottete, opera molto delicata da maneggiare. Improvvisamente si erano trovati davanti una piazza immensa cosparsa di ruderi e di macerie, rimasta tale e quale dopo il bombardamento degli americani del 1943. Avevano attraversato la piazza passando davanti alle stanze del pian terreno diventate grotte dove i mafiosi tenevano i cavalli e i contadini i maiali e si erano trovati di fronte una nobile rovina: il teatro Garibaldi, il più grande teatro morente della Sicilia, chiuso da più di trent’anni. Da quando era sbarcato nell’isola Cecchi era stato affascinato e anche un po’ spaventato da quello che ogni giorno d’imprevedibile gli capitava. Qui venne colto da un desiderio irresistibile di vedere cosa fosse rimasto del teatro al suo interno. Rischiando di essere presi per ladri d’appartamento, la strana coppia entrò dal portone di un edificio accanto e, prendendo a farsi largo tra le macerie con il timore di sprofondare dentro qualche buco, raggiunse l’ampio spazio di quella che era stata la platea, ancora più pericolante del resto dell’edificio. Cecchi si guardò intorno e disse: «Questo è il posto ideale per fare il Filottete e anche Shakespeare. Non ne vedo nessun altro che abbia lo steso carattere».
Così è cominciata una delle avventure teatrali più interessanti e movimentate che siano state mai intraprese in Sicilia. Tutti gli ambienti avevano preso un aspetto che stava al teatro come le carceri d’invenzione del Piranesi stavano alle prigioni: luoghi dove la fantasia aveva trasformato la realtà . Cecchi e Bavera si erano resi subito conto che il restauro completo dell’edificio avrebbe distrutto lo spirito del luogo. Ma era possibile utilizzare la grande sala così come il tempo e i vandali l’avevano restituita, per un numero di spettatori molto inferiore al passato, non più di cento a serata, ma con la luce del sole che la illuminava, penetrando da innumerevoli feritoie, come uno spazio elisabettiano. Un anno più tardi, Cecchi inaugurò il nuovo teatro con un Amleto che aveva già  avuto una versione a Spoleto, nella splendida traduzione di Cesare Garboli. La trilogia shakespeariana Amleto, Sogno di una notte di mezza estate e Misura per misura, è stato il primo di una serie d successi, anche internazionali. Bavera e Cecchi erano riusciti a trasformare un fatto eminentemente negativo come il degrado in una qualità  teatrale. Quando arrivavano al Garibaldi i veri teatranti, da Brook a Patrice Chéreau, da Lev Dodin ad Antonio Latella, alla star polacca Krzysztof Warlikowski, a Wenders che lo scelse per il suo film su Palermo, tutti si sentivano subito rassicurati e a loro agio. Non esistevano camerini, gli attori si cambiavano tra elettricisti e macchinisti che spostavano cavi e altri attrezzi e per raggiungere il palcoscenico esistevano numerosi passaggi stretti e precari che costringevano tutti a muoversi come topi dentro al formaggio. Ma nessuno si è mai lamentato e tutti erano felici di lavorare in un posto che assomigliava, come atmosfera, alle Bouffes du Nord, il famoso teatro a Parigi di Peter Brook. In una regione dove la cultura è stata sempre asservita al potere politico, le recite al Garibaldi rappresentavano un fenomeno eccentrico e liberatorio.
Quasi cinque anni fa il teatro si fermò per un restauro voluto e concepito da Cecchi e Bavera con l’architetto Giuseppe Marsala. I limiti di sicurezza non esistevano più e si rendeva necessario un rifacimento che tenesse conto della nuova storia culturale di quel teatro, approfittando degli incentivi europei. Bavera, offrì il progetto di recupero bell’e pronto, e il Comune riuscì a ottenere più di quattro milioni di euro. A partire da questo momento la storia del Garibaldi assomiglia a quella dell’isola ferdinandea che a metà  dell’Ottocento emerse improvvisamente nel mare di Sciacca e altrettanto rapidamente, dopo qualche tempo, s’inabissò, scomparendo del tutto. Per il teatro si trattava di una sosta prevista della durata di un anno, dopo di che avrebbe ripreso la sua attività . Conoscendo gli infernali tragitti che i siciliani sono obbligati a compiere dalla burocrazia locale, qualcuno aveva predetto che la gestione dei lavori da parte del Comune equivaleva ad entrare in un tunnel al buio, di cui non si conosceva la fine. Infatti il Comune, guidato da Cammarata, cominciò il rifacimento non tenendo conto della singolarità  del posto e normalizzandolo con la cazzuola e l’intonaco. Poi anche questi primi interventi sono scivolati in una caricatura del progetto, si sono fermati e nessuno sa dire dove siano finiti i restanti milioni della sovvenzione europea e quando il teatro riaprirà . La politica siciliana del malaffare ha ripreso i suoi diritti e le rovine del Garibaldi, non più nobili, sono ritornate ad essere rovine del non finito che si confondono con il degrado della Kalsa, esposta alle speculazioni edilizie come le ventraglie nel mercato vicino sono esposte a macerare al sole.


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