La «strana coppia» serra i ranghi per non far cadere il governo

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Nella boxe la sequenza dell’uno-due prevede un primo colpo al fegato — per indebolire la guardia dell’avversario — e un successivo colpo al mento per mandarlo al tappeto. Il «caso kazako» è preparatorio al gancio, cioè all’eventuale sentenza di condanna di Berlusconi: se così fosse, sarebbe difficile per il governo restare in piedi.

Perciò Letta e Alfano hanno stretto i guantoni a mo’ di protezione, sebbene si siano messi alle corde da soli con una vicenda dai contorni poco chiari. Uscire dall’angolo è possibile ma solo giocando insieme, ecco cosa ha spinto ieri il premier a prendere pubblicamente le difese del suo vice, prima di ribadirlo davanti al Senato. Il suo intervento di domani a Palazzo Madama è indispensabile, ed era quanto avevano già consigliato Casini, Monti e la stessa Finocchiaro al titolare dell’Interno due giorni fa, dopo il dibattito in Aula: «Altrimenti non si regge».

Così sarà. Ieri Letta e Alfano si sono tenuti in contatto per tutta la giornata, consapevoli fin dalla mattina che Renzi avrebbe sfruttato l’occasione per lavorarli al corpo, «per logorare il governo», in attesa di sapere se la Cassazione metterà knock-down il Cavaliere. In politica gli schemi sono prevedibili, ed era infatti scontato che il responsabile del Viminale non avrebbe ceduto dinnanzi alle pressioni di un pezzo del Pd, perché «nessuno può pensare di tenere le assise del proprio partito giocando con la mia testa». Nessun passo indietro o consegna delle deleghe. Non è stata presa in considerazione nemmeno l’idea di mediazione avanzata riservatamente dalla Finocchiaro al Pdl: se Alfano offrisse le dimissioni, noi poi le respingeremmo. Niente da fare. Il primo a osteggiare qualsiasi forma di compromesso è Berlusconi.

Incassato l’appoggio del Cavaliere, peraltro, il segretario del Pdl ha visto rafforzare la propria posizione dalla mossa della Lega, che non parteciperà al voto sulla mozione di sfiducia. Il colloquio di Alfano e Maroni ha svelenito un clima che si era fatto pesante tra due forze alleate al Nord. Certo il leader del Carroccio ha tenuto a ribadire al suo successore al Viminale che «ai miei tempi su una cosa del genere mi avrebbero informato». E l’altro di rimando: «Sì, ma ai tuoi tempi avevi il capo della polizia, che io ancora non avevo quando è successa questa cosa». Già, ma cos’è stata questa «cosa»? Perché la relazione del capo della Polizia sulla sequenza degli eventi non basta a spiegare l’«affaire Ablyazov».

«Siamo stati coinvolti in un gioco più grande di noi», aveva confidato Alfano a un dirigente del Pdl tre giorni fa, lasciando intuire ciò di cui ieri si discuteva sotto voce in Transatlantico. Sebbene i servizi segreti italiani abbiano subito proclamato la loro estraneità alla faccenda, nel Palazzo si suppone il contrario, al punto da far dire a esponenti di primo piano della «strana maggioranza» che «l’Aise c’è dentro fino al collo», e che alla prossima riunione del Copasir — il comitato di controllo sui servizi — verranno chiesti chiarimenti.

Ma l’interrogativo è anche un altro, e cioè se l’operazione ha pestato «un callo all’estero», se — come dice l’ex ministro Romano — «qualcuno nello scacchiere internazionale ha avuto motivi per soffiare sul fuoco e alimentare la polemica», che poi si è abbattuta sul governo: «C’entra per caso qualche potenza nostra alleata?». Il titolare delle Riforme Quagliariello ritiene che «se è stato pestato un callo, di sicuro non è stato pestato dalla politica», ovvero dal governo: «Anzi, la politica non se n’è accorta perché non poteva accorgersene». Così si torna alla frase enigmatica pronunciata da Alfano, a quel «gioco più grande di noi» che resta sullo sfondo della sfida politica domestica.

Una sfida che il premier e il suo vice contano di superare, nonostante le tensioni nel Pd. Per il titolare dell’Interno i problemi nella coalizione saranno di sicuro meno complicati di quelli che dovrà risolvere al Viminale, dove c’è forte tensione. E chissà se in queste ore difficili gli sarà tornato alla mente il consiglio che gli diede Bersani mentre si stilava la lista dei ministri: «Angelino, dammi retta, lascia stare quel dicastero. Basterebbe un corteo gestito male dalle forze dell’ordine per scaricare tutto su di te e quindi sul governo».

Il «caso kazako» non è la storia di un «corteo gestito male», ma non sarà nemmeno la storia che farà saltare l’esecutivo. Almeno così pare. Il rapporto fiduciario tra il premier e il capo dello Stato, per quanto messo in tensione dalle ultime vicende, dovrebbe infatti garantire a Letta e Alfano di superare il round. La ripresa decisiva è prevista per fine mese.

Francesco Verderami


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