Cassazione e Consiglio di Stato bocciano Silvio “Alle prossime elezioni non potrà candidarsi”

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ROMA — Una folle corsa in cui il veicolo rischia di finire contro un muro. Si potrebbe usare questa metafora per descrivere i disperati tentativi del Pdl per salvare comunque Berlusconi dagli effetti della condanna a 4 anni per frode fiscale. Un accavallarsi drammatico tra un’agognata grazia, anche solo con corrispettivo pecuniario, e un’amnistia ad horas. Poi lo svuotamento della legge Severino sulla sopravvenuta non candidabilità e quindi decadenza da senatore. Ma sentenze della Cassazione (la 13.831 del 2008, prima sezione civile) e del Consiglio di Stato (6 febbraio 2013, n.695) mettono l’aspirazione nel nulla. Per chiudere con l’obiettivo, sfruttando cavilli legali, di rallentare la decisione della corte d’appello di Milano sull’interdizione dai pubblici uffici per agganciare ipotetiche elezioni nella primavera 2014.
Le pensano tutte quelli del Pdl, mettendo in imbarazzo il Colle, soprattutto con la vulgata che certe ipotesi sarebbero state, se non concordate, quanto meno discusse con il Quirinale. Come per la grazia e per un’assai ampia amnistia che dovrebbe seguire una riforma della giustizia varata
per fornire la pezza “a colore” all’amnistia medesima. Ma sia la grazia che l’amnistia si rivelano subito del tutto non realistiche.
Sulla grazia l’argomento principe del Pdl è il paragone con il caso Sallusti, il direttore del Giornale cui Napolitano il 21 dicembre 2012 ha concesso il beneficio limitandosi però a commutare la pena di 14 mesi in 15.532 euro. Ma i due casi — una diffamazione, pur grave, di Sallusti e l’evasione fiscale di Berlusconi — non sono ovviamente paragonabili. Senza contare che il Cavaliere ha altri processi, e per reati gravi, sulle spalle. Quindi la grazia è un cammino impossibile.
Del pari lo è l’amnistia. Quando si pone il caso ai costituzionalisti reagiscono sorpresi. «Amni-stia?!? Ma non servono i due terzi? » dicono presidenti emeriti della Consulta di opposte tendenze come Piero Alberto Capotosti e Valerio Onida. In effetti l’impiccio è proprio qui. Per fare l’amnistia sarebbe determinante il voto del Pd sia alla Camera che al Senato. Alla Camera servono 421 voti, se ne raggiungono 437 se votano assieme Pd, Pdl, Sc. Idem al Senato dove ne servono 212, ne raggiungono 219 gli stessi partiti. Non solo. Nelle tante amnistie fatte in Italia, ma soprattutto le ultime, non è mai stato raggiunto un tetto così alto di reati, che sarebbe necessario per coprire quelli contestati a Berlusconi, la frode fiscale punibile fino a 6 anni (fa testo la pena in astratto non quella irrogata), la concussione per induzione fino a 8 anni.
Non va meglio il tentativo di bloccare al Senato la decadenza dell’ex premier per effetto della legge Severino. Si scalmanano fan come Giovanardi e Nitto Palma sostenendo che la norma si applica solo ai reati commessi dopo l’entrata in vigore della legge. Insistono sul fatto che l’indulto, riducendo la pena a un anno, farebbe cadere il tetto dei due anni imposto dalla legge. Dice l’ex presidente della Consulta Capotosti: «È assurdo, sono osservazioni del tutto infondate. Il criterio per l’applicabilità della legge è la sentenza sopravvenuta, emessa il primo agosto, in pieno vigore della norma. I fatti potrebbero anche essere di un secolo fa, ma l’importante è che ci sia la sentenza definitiva, in pieno imperio della nuova legge. Non c’è niente da dire, conta la sentenza, non i fatti. Se passasse il loro criterio non si applicherebbe più alcuna legge, soprattutto con i tempi lunghi della giustizia italiana».
Ma ci sono due sentenze che mettono le interpretazioni del Pdl nel cestino. La 13.831 del 2008 della prima sezione civile della Cassazione che, in tema di sopravvenuta ineleggibilità a proposito della precedente legge per gli amministratori locali di cui la Severino è una prosecuzione, dice che l’indulto non incide affatto, ai fini della possibilità di candidarsi conta la condanna e non la pena residua. Ma è dirimente la sentenza del Consiglio di Stato fresca del 6 febbraio 2013, n.695, laddove dice che l’applicazione della legge «non si pone in contrasto con il principio dell’irretroattività delle norme penali e, più in
generale, delle disposizioni sanzionatorie ed afflittive». E ancora: «La condanna penale irrevocabile è presa in considerazione come mero presupposto oggettivo cui è ricollegato un giudizio di “indegnità morale” a ricoprire determinate cariche elettive: la condanna stessa viene configurata alla stregua di “requisito negativo” o “qualifica negativa” ai fini della capacità di partecipare alla competizione elettorale e di mantenere la carica». Alla giunta per le elezioni del Senato non resta che andare avanti in fretta. Berlusconi deve lasciare il Senato e non si può più ricandidare.


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