Belgrado chiama l’Europa «Il passato non torna»

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BELGRADO — «Devono osare, essere più pragmatici, avere tattica». Passa dal basket alla politica, dai coach serbi che sono «i migliori del mondo» alla venerazione malata che «il nostro popolo ha sempre tributato alle sconfitte eroiche» come la Piana dei Merli, il mito nazionale capovolto all’origine del legame viscerale con il Kosovo. Tattica e pragmatismo sono quel che manca a Bruxelles, dice Aleksandar Vucic, l’uomo della nuova Serbia.
Nell’oro di una sera danubiana che sembra un vecchio valzer mitteleuropeo il vice premier e leader del Partito del Progresso, fondato nel 2008 dai fuorusciti Radicali fedeli al presidente Tomislav Nicolic e affermatosi alle elezioni del 2012 come prima forza, progetta il futuro del Paese che ha firmato l’accordo impossibile con l’ex provincia del Kosovo, che è uscito dal torpore post-bellico e accelera per avvicinare i negoziati di adesione all’Unione Europea, che non vuole più fare paura neanche a se stesso. «Conosciamo i nostri obblighi e li rispetteremo» dice Vucic davanti a un bicchiere del suo vino preferito, uno chardonnay prodotto da un amico di Lubiana. La Slovenia fa parte della Ue dal 2004; dal primo luglio 2013 è dentro anche la Croazia. A Belgrado la lunga attesa continua e l’impressione è che su riforme e garanzie Bruxelles sia più esigente di quanto non sia stata con Zagabria, Sofia o Bucarest. La sindrome dell’eterno perseguitato? «Noi serbi tendiamo a dare sempre la colpa agli altri ma stavolta sembra proprio che dovremo pagare i conti di chi è arrivato prima. Va bene, ci siamo impegnati e faremo il necessario per entrare nel 2020».
C’è qualcosa di inedito in questo sforzo di abbandonare la zavorra del passato al grande fiume della Storia, nel calcolato autocontrollo di fronte a richieste che fino a qualche tempo fa avrebbero irritato il nervo nazionalista del Paese rimasto per anni ostaggio dei latitanti Mladic e Karadzic nei negoziati con Bruxelles e ora pronto a ripartire. Equilibrio difficile da mantenere in una terra ad alto potenziale incendiario, dove la disoccupazione vola al 24% (quella giovanile supera il 40), i Radicali sono fuori dal Parlamento ma le pulsioni revansciste covano sotto la cenere soprattutto tra i nati negli anni Novanta, la generazione sbocciata dalle macerie di un Paese sconfitto. Chi è fuggito dalla guerra ed è tornato dall’estero, oggi è spesso in prima linea nella ricostruzione di un sistema produttivo che deve modernizzare le infrastrutture, snellire la burocrazia, combattere la corruzione, rilanciare i servizi e soprattutto attrarre investimenti stranieri. La nuova Serbia si propone sulla scena internazionale come partner affidabile, piattaforma strategica al crocevia di rotte commerciali ed energetiche al centro dell’Europa. Passa da qui il tracciato del gasdotto South Stream che partirà dalla Russia, l’ingombrante amica gelosa della nuova musica con Bruxelles; «ma vogliamo differenziare le fonti — assicurano al Ministero dell’Energia — guardando anche al Mediterraneo orientale e al Caspio». È della scorsa settimana l’annuncio della joint venture tra governo e Etihad Airways, la compagnia degli Emirati, per lanciare la neonata Air Serbia alla conquista del traffico aereo regionale.
La strategia interna segue un doppio binario. Da una parte la modernizzazione dello scheletro industriale sopravvissuto alla Jugoslavia di Tito, attraente per agevolazioni fiscali, costi del lavoro competitivi anche rispetto al lontano Est, esenzione dai dazi doganali per le merci destinate al mercato russo, una manodopera ancora legata a una certa cultura del lavoro in fabbrica. «Ti assicura stabilità, ti svegli al mattino e non devi preoccuparti di cercare qualcosa da fare» dice Diana, giovane operaia Fiat a Kragujevac, dove negli impianti di quella che fu la Zastava si produce a pieno ritmo la 500 L: tremila dipendenti, grandi foto della Torino anni Sessanta alle pareti e sulla facciata d’ingresso la scritta che ricorda all’ex capitale del Regno di Serbia «Siamo quello che facciamo». Dall’altro lato il governo punta a creare una generazione di laureati che maturi mentalità ed esperienze in linea con le richieste del mercato globale. I «centri per la carriera» che informano sui nuovi profili professionali orientano verso realtà come la Ncr, multinazionale dei servizi IT che nella megasede di Belgrado impiega 700 persone, in gran parte venti-trentenni multilingue ed esperti di informatica. Si progettano parchi tecnologici per favorire l’interazione tra università e impresa a Novi Sad e Nis, impianti per la produzione di energia termo e idroelettrica sul Danubio. La terra si profila come il business dei prossimi anni, ora che l’Accordo di Stabilizzazione e Associazione ha sbloccato la vendita di terreni agli europei, i prezzi cominciano a salire e le associazioni degli agricoltori mettono in guardia dalle speculazioni: un ettaro in Vojvodina costa fino a 17 mila euro, contro gli 8 mila di pochi anni fa.
Resta ambivalente l’amore a distanza con il continente, che verso i Balcani coltiva da sempre un insano oblio. Lo scrittore Predrag Matvejevic ha parlato di «un’Europa malata di Alzheimer che dimentica o resta spettatrice» di eventi che la definiscono. Al recente vertice di Brdo, il presidente francese Hollande ha detto che «costruirla senza i Balcani significa occultare la realtà dell’Europa nella fase tragica» che da Sarajevo ’14 si allunga a tutto il ’900. L’Europa ha bisogno della Serbia? «Lo spero — risponde Vucic —. Quel che so, è che la Serbia ha finalmente un futuro».
Maria Serena Natale


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