LA TRINCEA DEI PARLAMENTI

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I tory che votano contro il loro premier, i laburisti che sconfessano inesorabilmente la decisione cui Blair li trascinò in Iraq, sono una dimostrazione straordinaria di autonomia del Parlamento e dei suoi membri. E inaspettata: perché non solo in Italia, dove il Parlamento si nomina come un casting da avanspettacolo, una democrazia esausta ha abituato a credere che le decisioni si prendono, e i Parlamenti, come l’intendenza, seguiranno. Alle Nazioni Unite non può avvenire, per statuto. E lo stato del mondo sconsiglia di considerare l’Assemblea generale alla stregua di un Parlamento nazionale. Ma in democrazia il passaggio da un voto parlamentare che non sia la ratifica gregaria, e che esiga d’essere informato, è una condizione essenziale. Tanto più su un tema che l’inerzia di due anni e mezzo ha reso enormemente più arduo, perché ora si fronteggia una guerra civile, nella degradazione di tutte le parti e nella disperazione di chi non ha parte né casa. Occorre riflettere ai termini nuovi del problema. La guerra civile è la nuova, contagiosa strada che prende la transizione politica, nei Paesi già coloniali. Nella guerra civile viene giuridicamente, e definitivamente, superato il confine della sovranità nazionale, anche per chi non lo volesse creder umanamente, cioè moralmente, superato dalla brutalità del sovrano contro i suoi
sudditi o una loro parte. Perché la guerra civile delegittima il sovrano senza legittimare il ribelle, come nelle sognate insurrezioni contro una tirannide, che mettono il popolo da una parte e la corte dall’altra. Nella guerra civile svanisce l’autorità, nemmeno quel dualismo di potere che un tempo si vagheggiava come una tappa verso un potere nuovo; e gli uni e gli altri – e le ulteriori divisioni dentro altri e uni – non sanno se non odiare e distruggere.
Dall’esterno, questo modifica radicalmente la ragione di ogni intervento: non è un caso che non si sappia contro e in favore di chi intervenire, e specialmente in favore di chi, avendo il tiranno la responsabilità di una lunga prepotenza – 43 anni di “repubblica”, fra padre e figlio – rinnovata nel sangue. Non si interviene per “liberare” un Paese, ma per separare i contendenti e proteggere le vittime di ambedue (o tre o quattro…). Esattamente come in ogni azione di polizia, che non interviene a distribuire ragioni o torti, ma a impedire che continui la commissione del delitto. Dunque si riconosca intanto, proprio se si sostiene che non vi siano buoni e cattivi, che una polizia è urgente. Poi i riluttanti passeranno ad addurre che una polizia internazionale non esista. È vero – e fra i motivi per cui non esiste c’è anche l’obiezione “di principio”, cioè pregiudiziale, a che esista, mossa non da bravi anarchici, ma da statalisti che manderebbero in galera la zia. Detto che non esiste, due sono le conseguenze. O rinunciare a ogni misura, proclamando che non agire sia meglio: e non agire comporta che la sequela di carneficine e violazioni cresca come una pianta selvatica in un giardino abbandonato. Oppure risolversi ad agire nel modo che è possibile, cioè prendendo la strada meno dannosa, dove non si può la migliore. Fare quello che il fine cui si mira esige, e il fine è il soccorso alle vittime e la riduzione se non l’interruzione della violenza; e con quei mezzi che non contraddicano il fine, cioè il maggior consenso possibile di istituzioni internazionali, governi, Parlamenti e opinione pubblica, la più scrupolosa proporzione nelle armi impiegate, la premura estrema per l’incolumità e la dignità delle persone di tutte le parti in causa (o di nessuna).
Questa somma di condizioni fa sì che la decisione non possa derivare da una regola universale, ma debba ogni volta misurarsi con la situazione concreta. Dunque con la situazione della Siria in preda a una guerra civile il 1° settembre del 2013, che è diversa da quella della Siria di un anno fa o di due, e fra uno o due anni, come da quella del contesto internazionale. Da questo punto la discussione è giustificata e necessaria: ma la necessità di un’azione di polizia e dunque di ciò che più le si avvicini, o meno se ne distanzi, è la premessa ineludibile.
Esemplifico su me: ho invocato un intervento armato che mettesse fine all’assedio di Sarajevo e alla strage post-jugoslava; ho creduto necessario un intervento in Kosovo ed errato il modo in cui si attuò, sgombrando il terreno da ogni interposizione e ricorrendo ai bombardamenti dall’alto; sono stato dubbioso di un intervento in Afghanistan dove una popolazione, e specialmente bambine e donne, era lasciata in balia di un fanatismo feroce fino a poco prima foraggiato dagli Stati Uniti; sono stato contrario all’intervento in Iraq e all’esportazione della democrazia che pretendeva di ispirarlo; ho auspicato un intervento in Libia che proteggesse Bengasi da un massacro imminente. Posso aver avuto ragione o torto in ciascuna di queste circostanze (benché ce ne siano che non consentono dubbi postumi se non alla malafede, come la Bosnia) ma il criterio è stato uno solo. Gli interventi dall’esterno nel territorio di uno Stato possono chiamarsi militari solo per la dimensione, non per la qualità. Non di “guerre” si tratta, com’è evidente se non altro per la plateale sproporzione di forze, ma di azioni di polizia. Le quali non sono guerre in scala più piccola, ma del tutto altra cosa: e almeno dovrebbero. Di questo c’è scarsissima traccia nella discussione. C’è chi indice e proclama guerre per maschia vocazione, c’è chi per non tradire l’amore alla pace si rassegna a star inerte davanti alla strage di innocenti. Segnano il passo rumorosamente, guerristi e pacisti, senza che almeno i pensieri avanzino di un metro. Le guerre civili non sono un arcaismo, sono il frutto novissimo di regimi che hanno avuto il tempo di acquistarsi una parte dei popoli e inimicarsene un’altra. Quando una popolazione subisce i colpi di capi o usurpatori che nessuna legalità interna può arrestare, diventa lecito e anche doveroso intervenire con una forza esterna. Questa convinzione ha dato vita a un tribunale penale internazionale, e a quello che va sotto il nome di dovere di ingerenza e di protezione. Pur sancito internazionalmente, questo insieme di convinzioni è tuttavia oggetto di controversie e obiezioni. Ma la guerra civile è altra cosa, eccede la stessa, dannatissima, sovranità nazionale. La abolisce, e insedia in suo luogo il mattatoio. Pretendere di “rispettarne” una qualche autonomia è come stringersi nelle spalle quando le bande mafiose si fanno guerra: “Lascia che si ammazzino fra di loro”. E né le bande mafiose né le fazioni della guerra civile si ammazzano fra di loro: ammazzano bambini, donne, uomini e altri animali.


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