Quel golpe, palestra dei liberisti

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Marco Bechis, 57 anni, il regista di ‘Garage Olimpo’, che fu desaparecido durante la dittatura in Argentina (1976-1982), è cittadino italiano nato a Santiago del Cile.

Non solo per via del mestiere, ma perché in qualche modo è emblematico, comincia questa chiacchierata sui 40 anni del colpo di Stato che spazzò via il governo del socialista Salvador Allende e portò al potere i militari di Augusto Pinochet (11 settembre 1973), col racconto della trama di un film documentario che ha coprodotto con la sua “Karta film” e che è in procinto di essere presentato ai festival.

«Il titolo è “Fresia“. Il regista è Corrado Punzi che lo ha girato con l’avvocatessa Marta Vignola. Fresia è una cilena, grande attivista della battaglia per i diritti umani col marito ucciso dai militari. Dopo il golpe si trasferì in Italia. Due anni fa a Roma si è tenuto un processo contro un medico responsabile della tortura del marito che era stato arrestato dall’Interpol. Il documentario si concentra sul processo dove ci sono Fresia, diversi testimoni e l’imputato che non si fa quasi mai riprendere dalle telecamere, gli avvocati Manega e la stessa Marta Vignola che rappresentano la parte civile. A un certo punto del dibattimento lei scopre di avere un cancro e dice una cosa molto forte: ‘Perché noi che abbiamo subito violenze tremende con maggiore facilità ci ammaliamo di cancro?’. La riflessione è frutto di una studiata casistica. Alla fine l’imputato viene assolto per insufficienza di prove e quando la giuria legge il verdetto Fresia rimane con la bocca e le mani aperte. Adesso è morta per quella malattia».

L’impegno da produttore è la cartina di tornasole di un legame mai rescisso benché breve. Perché il golpe fu la causa «del mio risveglio politico». Che avvenne così: «Sono cresciuto in Argentina negli ambienti della borghesia immigrata. Poi mi trasferii in Italia e nel 1973 stavo facendo i primi anni di ingegneria a Milano. Analisi uno, quella roba lì. Ricordo le prime pagine di tutti i giornali che davano la notizia, li sfogliai e li conservai. Presi coscienza del fatto che non conoscevo né il Cile né l’Argentina. Così feci la valigia e tornai in Sudamerica».

Bechis diventa un attivista di sinistra e quando torna in Italia va a trovare spesso, nella redazione di ‘Panorama’ («allora era un settimanale di sinistra») il giornalista Alvaro Ranzoni, per spiegargli cosa sta succedendo in Argentina: «Era difficile far capire, anche ai cronisti più avvertiti, che c’era in atto qualcosa di peggio. Il Cile era stato più facile da comprendere, c’erano dei partiti che avevano gli stessi nomi dei nostri, Democrazia cristiana, partito socialista, i liberali. In Argentina i militari rovesciavano un governo corrotto e violento, che aveva creato gli squadroni della morte. Abbatterlo sembrava quasi liberatorio».

Non fu chiaro, almeno non da subito, che l’Argentina era la diretta conseguenza del Cile: «A Santiago c’erano stati gli stadi riempiti di dissidenti, i posti di blocco dell’esercito nelle strade, i sequestri casa per casa che avevano suscitato la riprovazione internazionale. Gli argentini, per non avere gli stessi problemi e avendo imparato la lezione, crearono i gruppi armati in borghese, tanti piccoli campi di concentramento invisibili. Mutuarono dal Cile e perfezionarono la tecnica di far sparire i corpi. I desaparecidos appunto. Avevano imparato a fare meglio le cose per non finire sotto accusa».

Il regista ricorda le discussioni coi parenti cileni. «Erano tutti pro-Pinochet anche se appartenevano alla classe medio-bassa. Nonostante non fossero alti nella gerarchia sociale avevano però le cameriere e le mandavano in piazza a battere sulle pentole contro Allende. Per loro era un comunista e col comunismo non sarebbero riusciti a mangiare».

Da qui l’adesione a Pinochet e alla politica economica dei ‘Chicago boys’ che usarono il Cile «come palestra per la loro dottrina neo-liberista. Ma in quel Paese era facile risollevare l’economia puntando sull’export di rame, frutta eccetera»

Sembrò poter funzionare dovunque. E ci riprovarono con Buenos Aires: «In una realtà però profondamente diversa perché c’era l’industria. Ci provarono, ma dovettero abbandonare il liberismo estremo anche a causa della presenza del peronismo».

C’è da capire perché il Cile colpì così a fondo l’immaginario di un’intera generazione benché non si tratti di un Paese centrale per i destini del mondo. «Io credo», risponde Bechis, «per via delle assonanze con la situazione europea. In Italia il compromesso storico nasce proprio sull’esperienza cilena. E non a caso i gruppi extraparlamentari andavano in piazza a gridare lo slogan ‘Compagno Berlinguer ci dicono dal Cile che il compromesso storico lo fanno col fucile’. E poi perché il Cile è stato fondato da europei, era considerato una sorta di Svizzera dell’America Latina, un luogo pacifico con le stesse dinamiche parlamentari oltretutto».

Resta a Marco Bechis, tanti anni dopo, l’amaro in bocca perché quella vicenda non fece scuola: «I militanti di sinistra argentini avrebbero potuto e dovuto prendere decisioni diverse per non andare incontro alla sconfitta. Ma evidentemente non si impara mai dalla storia e tocca farla sulla propria pelle».

Lui ricorda anche che qualcuno la lezione l’aveva tratta, non al punto però da riuscire a imporre la sua visione: «Prima del disastro a Buenos Aires mi invitò a pranzo un amico militante di sinistra. Mi cucinò uova strapazzate e zucchine. Augurò buona fortuna a me che restavo, lui e la sua famiglia se ne stavano andando via. Aveva capito di non poter più far niente. Almeno dal punto di vista politico. Coi militari non c’era più spazio per la politica».

Oggi, 40 anni dopo quel fervore e quell’emozione che pervase il mondo, ci sono altre domande che restano attuali: «Una per tutte. Che cosa è la solidarietà internazionale? Cosa significa essere internazionalisti oltre le collette che si fecero e che si possono sempre fare per la gente che soffre? Ecco mi pare che la Siria ci ponga lo stesso interrogativo».


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