Default, la destra si spacca Accuse ai gruppi radicali

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WASHINGTON — «Sono molto preoccupato per il destino del partito repubblicano. Se continuiamo così rischiamo di avere con noi solo i nostri parenti e i dipendenti che paghiamo. E’ la prima volta che vedo senatori del mio partito che raccolgono fondi e fanno campagne pubblicitarie per attaccare altri senatori repubblicani in carica». Meno tre. Mancano tre giorni alla temuta Apocalisse fiscale americana: da giovedì il Tesoro non avrà più un soldo. Ma al Congresso la situazione resta bloccata.
Coi conservatori della Camera che hanno smesso di negoziare con la Casa Bianca (salvo un isolato tentativo di Paul Ryan) e le residue speranze di sbloccare la situazione affidate ai colloqui Reid-McConnell (i capi dei due partiti al Senato), John McCain, un leader della destra sempre coraggioso, esce allo scoperto contro i Tea Party e il loro condottiero più estremo: quel Ted Cruz che è disposto a portare l’America al default, anche se questo provocherà danni economici enormi, se Obama non rinuncia alla sua riforma sanitaria.
«Rispetto Cruz, ma noi repubblicani dobbiamo decidere se seguire lui o prendere un’altra direzione per cercare di conquistare la maggioranza degli americani» incalza McCain. E la sua non è una voce isolata. Molti altri dei suoi, anche solidamente ancorati a destra, da Karl Rove a John Sununu, passando per l’ex governatore del Mississippi, Haley Barbour, non nascondono più la loro insofferenza per la pattuglia radicale che — lo dice Obama ma lo pensano anche molti conservatori — ha preso in ostaggio la destra. Finita in quello che pare un vicolo cieco: i sondaggi segnalano una profonda rabbia degli americani nei confronti di tutto il sistema politico, ma l’imputato numero uno è il partito repubblicano. La petizione lanciata da Starbucks per chiedere la riapertura immediata del governo ha già raccolto più di un milione di firme. E i lobbisti delle imprese — che in genere aiutano soprattutto i repubblicani, considerati il partito pro business — cominciano a mobilitarsi proprio contro la destra integralista che, dicono, rischia di mettere alle corde l’economia Usa.
Nonostante ciò i moderati di destra al Congresso continuano a muoversi come se avessero il freno a mano tirato. Perché? Perché in pochi anni la rappresentanza parlamentare dei conservatori ha subito una vera trasformazione genetica a causa di due meccanismi: il ridisegno dei confini di molti collegi elettorali in modo da renderli più politicamente omogenei e il via libera della Corte Suprema al finanziamento illimitato (e senza alcun obbligo di rendiconto) di qualunque campagna politica, anche se disegnata per influenzare le elezioni. Si pensava che tutto questo sarebbe servito ai repubblicani per prendersi una rivincita. Invece le elezioni di un anno fa le hanno vinte i democratici, lasciando la destra a fare i conti con un meccanismo perverso nel quale la rielezione di un deputato repubblicano non si decide più il giorno delle elezioni (se il collegio è molto conservatore, il democratico non ha comunque chance) ma nelle primarie dove a votare sono soprattutto i cittadini più ideologizzati e un candidato di ultradestra ben finanziato può facilmente spuntarla su un deputato uscente moderato, sottoposto a un bombardamento di spot in tv che lo dipingono come un servo dei democratici. E’ questa la barbarie politica di cui parla McCain. La scopre oggi, ma arriva da lontano: negli ultimi tre anni sono cambiati la metà dei 232 repubblicani eletti alla Camera. Tra i nuovi soprattutto integralisti dei Tea Party ma anche cittadini — concessionari d’auto, contadini, un boscaiolo — senza alcuna esperienza politica. Le loro discussioni avvengono in quelli che sono stati soprannominati i Chick-fil-A Caucus: riunioni durante le quali vengono serviti i panini della catena di fast food conservatori (quelli dell’impegno contro i matrimoni gay). Difficile smontare adesso questo meccanismo: quando, giorni fa, i parlamentari di destra hanno «processato» a porte chiuse Ted Cruz, gli hanno anche chiesto di smettere di usare i fondi dei suoi finanziatori per attaccare i compagni di partito. La risposta è stata un no secco.
Massimo Gaggi


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