Il doppio livello di lettura che irrita il presidente

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È il solito riflesso condizionato bipolare (infatti non appena in aula viene evocata l’«amnistia» il Pdl applaude) che ammala fino all’isteria la nostra vita pubblica, nella pretesa di scorgere dietro ogni frase un intrigo e traducendo tutto in interventi pro, o contro, il Cavaliere. Ecco ciò che ha in mente Giorgio Napolitano quando in serata, rientrato in albergo dopo una sessione del meeting internazionale che lo vede impegnato in Polonia, lo si interroga su queste reazioni. Dice, scuro in volto e alzando la voce come molto raramente gli accade: «Coloro i quali pongono la questione in questi termini fanno pensare a una sola cosa, hanno un pensiero fisso e se ne fregano dei problemi della gente e del Paese. Non sanno quale tragedia sia quella delle carceri… E al riguardo non ho altro da aggiungere». Insomma: il doppio, e maliziosissimo, livello di lettura applicato al suo appello solenne fa quasi uscire dai gangheri il presidente della Repubblica, come dimostra quel «fregarsene» che è lontano anni luce dalla sua sempre sorvegliata cifra espressiva. Così, si ribella all’accostamento strumentale perché sente di esserne toccato due volte: 1) perché punta ad alimentare dubbi sulla neutralità alla quale è vincolato dalla Costituzione, oltre che dalla propria stessa coscienza; 2) perché immiserisce un tema di responsabilità nazionale che non può più essere eluso, e non a caso renderne consapevoli le Assemblee affinché sia affrontato e risolto è per lui «un imperativo giuridico e morale». Di più: è un tema di civiltà su cui ha ritenuto di dover mettere alle strette — e in un certo senso in mora — il Parlamento, dopo aver verificato l’emergenza (con visite in diverse carceri e più di un colloquio con Marco Pannella) e dopo che l’Italia è stata più volte sanzionata per questo dall’Unione Europea. L’ultima con una sentenza del 28 maggio scorso, termine a decorrere dal quale ci restano ormai pochi mesi per correre ai ripari. Senza più alibi. Certo, il capo dello Stato sapeva bene che nel Paese il confronto è intossicato da vecchi e reciproci sospetti, giocati sul nome di Berlusconi. Era consapevole che il semplice sollevare la questione, mentre i partiti rinfocolano di continuo la querelle sulla condanna del leader del centrodestra e sul nodo della «agibilità politica», lo avrebbe esposto al frustrante gioco del «cui prodest». Perciò, dopo aver anticipato a Napoli 10 giorni fa la notizia dell’imminente messaggio (lo strumento istituzionalmente più penetrante a disposizione degli inquilini del Quirinale, anche se spesso disatteso dalla politica), ha atteso che fosse superata la crisi. E, per inciso, lo staff fa notare due passaggi eloquenti del testo: quello in cui si sollecita di «evitare che l’amnistia incida su reati di rilevante gravità» (e qui è escluso per forza il Cavaliere) e quello in cui si ricorda comunque che è competenza esclusiva del Parlamento fare «la perimetrazione» dei reati da amnistiare. Ora, a svolta politica compiuta, il clima sembra davvero svelenito, a Napolitano? «Penso di sì», replica ai cronisti, tradendo ancora residui d’irritazione. «Si è svelenito nel momento in cui il Parlamento ha dato la fiducia al governo Letta. Bisogna essere ciechi per non capirlo». E neanche le polemiche sull’Imu lo preoccupano e li derubrica a «piccoli episodi da non sopravvalutare». Un modo per dire: non impicchiamoci alle sciocchezze, riflettiamo sui problemi seri. Come quello delle carceri.
Marzio Breda


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