Il Pdl scosso. Congelata la spaccatura

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E Schifani frenò il Cavaliere: non dirò parole che non condivido ROMA — Il dramma si consuma in una mattinata schizofrenica, in cui Silvio Berlusconi e i suoi fedelissimi che hanno invocato la rottura come unica strada, perdono credibilità e guadagnano l’immediata sopravvivenza. L’ex premier cambia idea tre volte in tre ore, e se l’adrenalina di una mattinata folle fa dire a un ironico Enrico Letta che «è un grande», smaltito l’entusiasmo per il colpo di scena, la sconfitta del Cavaliere si squaderna a sera in tutta la sua brutalità.
Costretto a tornare sui suoi passi, a smentire le parole durissime appena pronunciate dagli uomini a lui più fedeli (Bondi, che dopo l’intervento in Aula ha un piccolo malore, Brunetta), a travolgere il risultato del voto — molto frastagliato — del gruppo pdl le cui truppe ormai sbandano, Berlusconi a sera non sa ancora se la sua creatura sopravviverà unita o se si sdoppierà, se la divisione falchi-colombe diventerà guerra, se insomma l’estremo tentativo di rimediare a un errore enorme di calcolo numerico e politico sarà servito a qualcosa.
Sì perché la situazione nel Pdl allo stato resta apertissima: ieri sera sembrava si dovesse tenere un vertice chiarificatore tra lo stesso Alfano e Berlusconi per vedere come e se sarà possibile restare insieme, ma l’appuntamento si terrà più avanti. C’è intanto da contare le truppe e gestire il passaggio ognuno con i suoi, e infatti Alfano, Lupi e Quagliariello ieri sera hanno riunito i «dissidenti» del Pdl — una settantina tra deputati e senatori — con l’intento però di congelare la formazione di gruppi autonomi sia alla Camera che al Senato, almeno per ora: «Bisogna fare un passo per volta», è l’opinione dei leader dello strappo. E nessuno sa ancora se si aprirà una battaglia per separare le due componenti — ad Alfano il Pdl e ai falchi Forza Italia, magari — o se l’offensiva del vicepremier porterà alla conquista definitiva, da parte delle colombe, del partito, per trasformarlo come vorrebbe Fabrizio Cicchitto in una «forza di centrodestra europea e del futuro», guidata dal segretario.
Una sola cosa è certa: Berlusconi ha perso la sua partita, e non è più padrone della scena, per la rabbia della figlia Marina che — raccontano — è quella più ferita e irata per come lo hanno trattato i «traditori». Quelli che lui — impegnato in queste ore a frenare e consolare — non vorrebbe nemmeno considerare tali per quanto ci sta male, lui che di Alfano dice ancora che «con me ha sempre usato parole di grande affetto». Ma Berlusconi stesso è stato l’artefice del disastro, non capendo che la sua battaglia non era quella del nuovo centrodestra. Dopo la decisione sulla sfiducia di martedì sera, ha però cominciato a nutrire forti dubbi nella notte, e soprattutto ieri mattina, ripensando alle «decine di telefonate angosciate» ricevute: dal presidente della commissione Ue Barroso a quello di Confindustria Squinzi a quello di Confcommercio Sangalli che gli chiedevano di fermarsi, perché «la crisi sarebbe deleteria».
Ma anche nelle riunioni ristrette, con i più moderati tra i suoi fedelissimi — Schifani, Bonaiuti, Romani, anche Gasparri — rimaneva forte l’appello a «pensarci bene, rischiamo di perdere tutto». Tanto che ieri mattina, alla riunione dei gruppi al Senato, è parso molto possibilista sul sì: «Forse stiamo sbagliando, forse davvero dovremmo votare anche noi la fiducia, il Paese soffrirebbe una crisi e dobbiamo tenere unito il partito…». Raccontano che però la delusione, quando gli hanno mostrato la lista dei filo-governativi, è stata enorme. E così la rabbia. E ha chiesto lui stesso ai suoi il voto. Erano in 60, su 90, i presenti. E si sono spaccati comunque: la linea attendista suggerita come estrema via d’uscita da Gasparri, quella di uscire dall’Aula, il sì alla fiducia e il no hanno avuto più o meno gli stessi voti, in uno scrutinio ad alzata di mano molto confuso. Ma con un piccolo scarto ha prevalso il no, e Berlusconi ha troncato i discorsi: «Votiamo no, mezze misure non sarebbero capite».
Cosa sia successo tra mezzogiorno e l’una, quando è arrivata l’ultima giravolta, è stato certo l’estremo lavorìo di mediazione di Romani, Gasparri, Bonaiuti ma soprattutto di Schifani, che ha di fatto dimostrato come i numeri dei governativi sarebbero potuti crescere all’improvviso rifiutandosi di dichiarare il voto contrario al governo in Aula («Io ti seguirò presidente, lealmente, ma non pronuncerò un discorso che non condivido e che spacca per sempre il mio partito»). Alla fine, i moderati fedeli al Cavaliere tirano un sospiro di soddisfazione per aver evitato il big bang, fiduciosi che si possa ancora trovare una soluzione che salvi l’unità del Pdl, il «bene primario».
Come la pensi Berlusconi è più difficile da dire: scorato, prostrato, stremato, ai gruppi alla Camera ha detto che bisogna «restare uniti», che si deve cercare di «riconquistare quelli che se ne sono andati», ma anche che «con Alfano il Pdl era al 12%…». Quell’Alfano che resta ancora un interlocutore indispensabile e necessario, anche se nel ruolo di capo politico e non più di figlioccio, come sempre era stato.
Il tentativo di tenere tutto unito o comunque di non arrivare al lancio degli stracci è in corso, e Berlusconi sa che potrebbe convenirgli: raccontano che gli sarebbe stato fatto balenare un percorso per cui, con un clima positivo e di collaborazione, il voto in Aula sulla decadenza possa slittare o comunque essere rivisto. Si vedrà se sono segnali di fumo o promesse reali. Come si vedrà se le rotture personali di rapporti e convivenze nel Pdl potranno essere sanate. Non ci crede Cicchitto, che non vede margini, mentre Quagliariello sembra pensare alla necessità di una separazione graduale. Dopo 20 anni di unanimismo, si giocherà in pochi giorni il futuro del centrodestra.
Paola Di Caro


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