Lampedusa, la beffa dei funerali di Stato “Le bare via dall’isola senza le esequie”

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LAMPEDUSA — Non ci sarà nessun funerale di Stato per quel bimbo chiuso nella più piccola delle quattro bare bianche che sbarcano dalla nave Cassiopea sul molo di Porto Empedocle. Né per la sua giovane mamma, che lo segue a ruota. Sorridono felici e si tengono per mano, madre e figlio, nella foto che è stata attaccata su entrambe le bare. Per loro, l’ultimo omaggio prima della sepoltura è lo straziante canto funebre di un gruppo di donne eritree arrivate fino a qui per cercare di riportarsi a casa i loro cari.
Perché quello versato nel terribile naufragio del 3 ottobre, come recita una scritta in rosso tracciata su uno striscione che accoglie al porto le prime 150 salme portate via dall’hangar di Lampedusa, è “Sangue nostrum”. Sulla banchina, in silenzio, il prefetto di Agrigento Francesca Ferrandino, i sindaci
di Agrigento Marco Zambuto e Lillo Firetto, rispettano il dolore di questa comunità così colpita che continua a chiedere risposte che nessuno sembra in grado di dare. Dei funerali di Stato annunciati il giorno della sua visita a Lampedusa dal premier Letta nessuno sembra sapere nulla. Informalmente si fa sapere che le procedure per il riconoscimento dei corpi e per l’eventuale restituzione ai parenti sono lunghe e farraginose e le bare non possono aspettare. Quel che sembra certo è che se mai ci sarà una solenne commemorazione delle vittime del naufragio dell’Isola dei Conigli, le salme saranno già sotto terra. Le prime 150 saranno tumulate nei cimiteri di Agrigento e Porto Empedocle, le altre nei camposanti della provincia. A Lampedusa, forse, rimarranno solo cinque bare bianche di bambini che non sono stati ancora riconosciuti da nessuno.
Nell’isola urlano e si disperano i familiari che negli ultimi giorni sono giunti dall’Italia e dal Nord Europa. C’è una lunga fila dietro la porta della caserma dei carabinieri. Questa gente, senza informazioni e senza soldi, non sa cosa fare. Tra di loro c’è anche un sacerdote ortodosso, Musie Shishay. Da cinque anni vive in Italia, arrivato anche lui a Lampedusa con un barcone. Adesso, tra i morti, cerca sua sorella Hagerawit. Aveva 22 anni, era sul peschereccio affondato. «Non so più dov’è ora, vorrei rispedirla in Eritrea dalla mia famiglia», dice disperato.
Le forze dell’ordine da giorni si fanno in quattro per cercare di ricomporre, vivi o morti, interi nuclei familiari che si sono “persi” in mare. Trentotto le vittime accertate dell’ultimo naufragio e 150 forse i dispersi, metà dei quali bambini. Ma la priorità è ridare i genitori a chi ce li ha ancora, come Maram, 17 mesi, appena. È lei uno dei “fagottini” che sbarcano a Porto Empedocle in braccio ad alcuni ufficiali della Marina militare che non nascondono la commozione davanti al dramma di questi piccolissimi che la tragedia sembra avere trasformato improvvisamente in adulti. Alcuni di loro hanno chiesto di poterli avere a casa in affido. La mamma e il papà di Maram, che erano con lei a bordo del barcone naufragato tra Malta e Lampedusa, sono vivi, ma sono nel centro di accoglienza de La Valletta. «Sono sicura che mia figlia è viva, stava bene, ce l’avevo in braccio quando ci hanno salvato», ha raccontato Aisha, la mamma, una libanese di 25 anni, in fuga con il marito siriano. Nella concitazione di quei momenti, la piccola Maram è finita tra le braccia di un ufficiale della Marina militare e ora è a Porto Empedocle. Soli, invece, sono rimasti tre fratellini che hanno commosso tutto l’equipaggio della Libra. «I due più grandi, due gemellini di tre anni – racconta il comandante Catia Pellegrini – hanno fatto tutto il viaggio proteggendo il più piccolino, che forse non ha neanche un anno. All’inizio non permettevano a nessuno di avvicinarsi».


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