RICATTO CONTINUO ALLA DEMOCRAZIA

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Gli sgravi fiscali pretesi dalle marionette ministeriali significano in prospettiva debito pubblico insostenibile, collasso nei mercati, uscita dall’euro, tosatura della moneta, fallimento, e non è infortunio ma freddo calcolo: in mano pirata i fallimenti rendono; l’Italia fallita diventa roba sua (in latino, mancipium o nexum: mancava poco che lo fosse già), corpo vile, da spolpare finché restino gusci vuoti (vedi Telecom, Alitalia ecc.); convertita la repubblica in monarchia patrimoniale, non esistono più cittadini eguali, solo sudditi. Dall’avventura uscirà ancora più ricco. Le briciole ingrassano dignitari e gregari: venuti dal niente, gli strisciano ai piedi; visi, parole, gesta li indicano pronti a tutto. Siamo ai ricatti: 284 parlamentari Pdl firmano dimissioni collettive se Lui decadesse dal Senato restando senza scudo contro eventuali misure cautelari; gl’intimi lo dicono in preda alla paura (racconta d’avere perso il sonno e 11 chili). L’atmosfera ricorda Roma nel IV secolo d. C., descritta da Ammiano Marcellino.
Atti e omissioni parlano. In sette anni mai una sillaba sulla servitù d’Italia, come se l’arrembante fosse rispettabile statista: il Colle assopiva blandi oppositori predicando un rendez-vous sotto l’egemone; s’era anche speso in manovre immunitarie incostituzionali. Caduto quel sistema nel ludibrio, salva la compagnia d’Arcore congelando le Camere: dopo 14 mesi il revenant manca d’un filo la vittoria; e scaduti i 7 anni, l’uscente dal Quirinale vi torna, rieletto, per starvi altri 7, fino al suo 95° (evento abnorme, retroscena bui). Apriva la porta a sospette riforme. In quattro e quattr’otto impone un governo nel quale il redivivo ventriloquo conta cinque pappagalli: Dominus Berlusco sta fuori, non ripresentabile, ma tutti sanno chi comandi. Gli dà poca ombra l’omonimo nipote del plenipotenziario d’Arcore, cari tutt’e due a Neapolitanus Rex. Intanto arriva in Cassazione uno dei processi che il quasi padrone d’Italia tentava d’impedire: frode al fisco mediante trucchi societari esteri; l’appello gli aveva confermato la condanna a 4 anni. Establishment, finti neutrali, falsi avversari esercitano una palpabile pressione: ed essendo più chiara del sole la prova, auspicano mosse dilatorie che in quarto grado sotterrino l’ultimo segmento della lunga condotta delittuosa; il grosso (360 milioni) era già estinto. Vi lavorano atleti del perditempo strategico. Ma Dike è dea seria: la condanna era motivata a regola d’arte; impeccabili conclusioni storiche; altrettanto le giuridiche, salvo la misura della pena accessoria; sarà ridecisa dalla Corte milanese; il resto è res iudicata. Ulula a comando il cosiddetto popolo della libertà. L’opinione falso- moderata segna nel libro nero i cinque guastafeste in toga, sei col sostituto procuratore generale. Quaranta giorni dopo emergono questioni calde: in base a norme votate anche dal Pdl (dove avevano la testa?), l’irrevocabilmente condannato non è più candidabile; né esiste alternativa al voto assembleare che lo dichiari decaduto. Corrono furiose parole d’ordine. Chiuso nel castello d’Arcore, Sire Berlusco macina pensieri foschi cambiando partito varie volte al giorno, finché il videoproclama 17 settembre svela un complotto: entità diaboliche disseminano invidia, odio, miseria, morte; e perdenti nel conto elettorale, armano la mano d’una magistratura falsaria contro l’innocente; non esiste più diritto (i suoi slogans sono antifrasi, basta rivoltarle). In maschera livida scalda le midolla ai forzaitalioti: «ribellatevi»; «fate qualcosa di forte».
Rivisitiamo l’uomo del Colle. Corre voce che studiasse se e come graziarlo: gesto molto rischioso, ormai decorosamente impossibile; venerdì 20 risponde dalla Luiss commemorando Loris D’Ambrosio. Anche stavolta prende pose neutrali, dolente perché continuano i «conflitti magistratura-politica». Formula incongrua. Definiamoli meglio: Dike, ossia la Legge, versus un gangster politicante le cui mani arrivano dappertutto; è partita impari. La risposta coglie un punto marginale dell’invettiva: che costoro siano solo «impiegati»; passano inavvertiti atto facinoroso, contumelie, grida eversive. In compenso suona duro l’ammonimento alle toghe: «dovrebbero fare la loro parte», ispirate da «equilibrio», «sobrietà», «riserbo», «assoluta imparzialità», «senso della misura e del limite»; e il verbo «dovrebbero» (vedi «Corriere della Sera», 21 settembre) suggerisce gravi sottintesi. Tiriamoli fuori: che lì dentro, forse anche nei processi de quibus, lavorino teste guaste (l’allora premier aveva diagnosticato una psicosi dell’intero corpo giudiziario); cantino segreti d’ufficio; emettano giudizi storpi pro amico vel contra inimicum; sfoghino pulsioni megalomaniache. Ogni lettore attento trasale. La toga non conferisce l’infallibilità né santifica le persone: esistono casistiche disciplinari; ad esempio, circolavano sentenze vendute e così un rampante protetto dal Palazzo s’era arraffata la Mondadori, tale essendo lo stilus Berlusconis. Lo sbalorditivo sermone riscuote applausi dai soliti Tartufi: falchi forzaitalioti vantano l’intervento ad adiuvandum; l’apologeta tenta pietose letture ad usum Delphini. Erano parole inescusabili. Seminate a piene mani, le «larghe intese» portano frutti velenosi. Infine, è mossa deplorevole offrirgli l’amnistia da Poggioreale, 28 settembre, ma non basta: l’estorsore vuole un impensabile salvacondotto, subito; e rovescia il tavolo, come nella famigerata Bicamerale; stavolta comanda le dimissioni ai suoi ministri.


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