DORIS LESSING. Addio all’autrice da Nobel che mise la letteratura dalla parte delle donne

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L’11 ottobre 2007 Doris Lessing (per l’anagrafe Doris Taylor) ricevette il premio Nobel. La notizia arrivò alla sua agenzia in tarda mattinata, quando lei era a fare la spesa. Cellulare, come al solito, spento. Così, quando tornò alla sua casa di Hampstead, carica di frutta e carciofi, trovò una folla di giornalisti ad aspettarla, e lo seppe da loro. «Cristo!» le scappò detto. E subito dopo: «Erano trent’anni che lo aspettavo. Ho vinto tutti i premi che ci sono, tutti i dannati premi. Mi mancava solo quello». Le chiesero se non ritenesse di dover rifiutare per ragioni politiche. Rispose, candidamente: «Non ci avevo pensato. Dovrei? Beh, ci penserò seriamente, va bene?».
L’ho intervistata quattro o cinque volte, ma una Doris Lessing così informale non mi è mai capitato di vederla, anche se sospettavo fortemente che esistesse perché ho letto quasi tutti i libri dell’autrice morta ieri nella sua casa di Londra, a 94 anni. Da L’erba canta
(1950) al famoso Taccuino d’oro (1962): ne sapeva decisamente troppo della vita quotidiana delle donne per non averla vissuta. Col manoscritto di L’erba canta aveva lasciato nel ’49 la Rhodesia del Sud (oggi Zimbabwe), cacciata per essere comunista e contro
l’apartheid in quel Paese e in Sudafrica. Era cresciuta lì e ci aveva vissuto quasi trent’anni. Infatti, nell’intera esistenza e opera, l’amore per l’Africa non è mai venuto meno. Si veda anche il tardivo Il sogno più dolce (2002), un inno sia all’Africa, benché a suo avviso morente per corruzione, sia all’anticomunismo, con tutto il livore di una “ex”. Il romanzo è anche un’implacabile descrizione del “maschio comunista: «So quel che dico, ne ho sposato uno», aggiunse per essere più convincente. Tornando a L’erba canta,
il libro narra di una donna bianca che in pieno regime segregazionista osa amare un domestico nero. Ne Il taccuino d’oro
invece (ma in mezzo ce ne sono molti altri) parla, con enorme anticipo rispetto alla realtà italiana, di donne intelligenti, anzi intellettuali, (benché lei detestasse il termine) e autoconsapevoli, logorate da una fatica quotidiana che restava, malgrado i tempi, invisibile agli occhi padronali dei maschi, per i quali non aveva valore.
Come avveniva per gli schiavi una volta. Quel libro fece presto a diventare la bibbia delle femministe di tutto il mondo. E la chiave in cui fu letto indispettì enormemente la sua autrice. Nell’82 dichiarò al New York Times: «Quello che le femministe vogliono da me è qualcosa che loro non hanno preso in considerazione perché proviene dalla religione. Vorrebbero potermi dire: “sorella,
starò al tuo fianco il giorno che quegli uomini bestiali non ci saranno più”. Con rammarico sono arrivata a questa conclusione ».
Di questo atteggiamento posdunque so testimoniare, e in prima persona. La intervistai per la prima volta nell’83, e mi presentai a casa sua come se effettivamente stessi per conoscere una “sorella”. Avrei dovuto sospettare che qualcosa non funzionasse quando il suo agente mi chiese se la Repubblicafosse un giornale femminista. Non sospettai nulla e mal me ne incolse. Alla trepidante domanda se non si ritenesse una scrittrice femminista, rispose con britannico gelo: «Almeno in questo Paese non sono considerata una scrittrice per sole donne». Aggiunse, con disprezzo, che le femministe si erano autocastrate limitandosi ai discorsi fra loro. Dichiarando guerra agli uomini, disse, avevano perso una grande occasione per salvare il mondo. Eppure la motivazione del Nobel le riconosce il merito di avere sempre scritto dalla parte delle donne. Con ragione. La sua grandezza consiste infatti non solo nell’aver sempre messo a fuoco temi scottanti, controversi, trasgressivi, non conformisti, avveniristici se non addirittura profetici, ma nell’averlo sempre fatto dal punto di vista delle donne.
Come quella di “femminista”, Doris Lessing ha sempre rifiutato qualunque altra etichetta politica, letteraria o culturale che, a suo parere, potesse in qualche modo restringere l’arco del suo amplissimo orizzonte immaginativo (per esempio, scrittrice di
fantascienza quando lo è stata). Temi e problemi di ogni genere dell’ultimo secolo tumultuano fra le pagine dei cinquanta libri che ha prodotto nei suoi 94 anni (era nata in Iran nel 1919), fino all’ultimo: Alfred e Emily, uscito nel 2008 e dedicato ai suoi genitori.
È difficile immaginare qualche tema culturalmente scandaloso di cui non abbia scritto: comunismo, anticomunismo, futuro, Africa, realismo, fantascienza, rapporto razionale-irrazionale, libertà interiore. Ha scritto dello “scandaloso” amore di una donna avanti negli anni con uomo più giovane (Amare, ancora, 1996), di una terrorista in realtà ridotta a fare l’“angelo del ciclostile” per i terroristi maschi (La brava terrorista, 1985), di un mondo in cui l’azione si svolge nella dimensione del sogno mentre quella tangibile e tradizionale è secondaria e per giunta orribile (Mara e Dunn, 1999, con un seguito nel 2005).
Ha narrato di mostri distruttivi, inspiegabilmente e irreparabilmente presenti nelle nostre “buone” famiglie (Il quinto figlio, 1988) ha scritto di Africa prima e dopo la decolonizzazione, ha fatto denunce sociali, ha esplorato il concetto di libertà ( Le prigioni che abbiamo dentro, cinque lezioni sulla libertà, 1986). Ha perfino saputo prendersi gioco dei critici letterari scrivendo due libri, (Il diario di Jane Somers, 1983, malinconica e realistica storia di decadenza e vecchiaia, naturalmente al femminile, e Se gioventù sapesse,
1984) con pseudonimo di Jane Somers, che nessuno ha riconosciuto. Non solo: ma i testi sono stati stroncati.
Ebbe a dirmi, ancora, che gli scrittori sono dei contatori Geiger della cultura. Lei certamente lo è stata. Nell’introduzione al “fantascientifico” Shikasta (1979) scrive: «Credo sia possibile (e non solo per i romanzieri) inserire la spina in una sorta di Uhr-mente, o mente superiore, o inconscio o quant’altro, e questo spiega un gran numero di “coincidenze” e “avvenimenti improbabili”». In realtà, questa oscillazione tra realistico e fantastico si inserisce perfettamente in una grande tradizione inglese che, se per il realismo (femminile) può far capo a Jane Austen, per il fantastico va indietro fino a Thomas More e alla sua Utopia,
passando poi da Jonathan Swift, da H. G. Wells, da Aldous Huxley, dal George Orwell di 1984 e de La fattoria degli animali.
I suoi precedenti vanno dunque ricercati in quel policromo fascio di luci che è la “narrativa ragionante” inglese, fatta di realismo e di immaginazione, di conversazione su fatti quotidiani e di opinioni, di satira e invenzione di luoghi “altri”: mondi diversi, che magari sono qui e ora, paralleli e contemporanei al nostro. Varie volte le ho chiesto quale fosse la morale di questa o quella sua “favola”. Ogni volta mi ha risposto, indignata, di avere «semplicemente raccontato una storia». Forse anche Aldous Huxley, a chi gli avesse chiesto se Brave New World avesse una sua morale, avrebbe risposto così.
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Il personaggio
È morta ieri a 94 anni, «senza soffrire» (come ha fatto sapere l’editore inglese), la scrittrice britannica Doris Lessing, Nobel per la Letteratura nel 2007. Nata in Iran da piccola si è subito trasferita con la famiglia in Rhodesia del Sud (l’attuale Zimbabwe) per poi stabilirsi a Londra, dove ha pubblicato nel 1950 il suo primo romanzo, Autrice prolifica, tra le sue opere di narrativa si ricordano il celebre L’erba canta. Taccuino d’oro (1962), Gatti molto speciali (1967), Discesa all’inferno (1971), Il quinto figlio (1988), Una comunità perduta (2007) tutti editi da Feltrinelli e Fanucci, che a gennaio pubblicherà il fantascientifico Shikasta


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