Il Cavaliere dell’Apocalisse

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 NON c’è più spazio per la dimensione etica, ridotta a inutile orpello per benpensanti da un potere auto-riferito che si pretende al di sopra di tutto. C’è spazio solo per la maledizione biblica, che lo Statista di Arcore scarica preventivamente sui «colleghi senatori» dell’odiata sinistra e dell’esecrata opposizione grillina. Salvatemi, tuona dall’abisso nel quale l’hanno sprofondato i suoi reati e i suoi «peccati», o della vostra colpa «dovrete vergognarvi per sempre di fronte ai vostri figli, ai vostri elettori e a tutti gli italiani».
Con queste parole definitive del suo protagonista indiscusso, si compie dunque l’osmosi finale che era, e voleva essere fin dal ’94, il cuore stesso del berlusconismo. Un’odissea personale che deve coincidere con un’epopea nazionale. Il paradigma di una leadership carismatica che deve diventare lo stigma di un intero Paese. Così, seguendo fino in fondo la psicologia disperata e l’egolatria esasperata del Cavaliere, se domani il presidente del Senato Piero Grasso pronuncerà davvero la frase fatidica («Prego i commessi di accompagnare il senatore Berlusconi fuori dall’aula») non si celebrerà solo la fine di una carriera politica, ma si consumerà “la fine della Storia”. Con lui non muore solo il capo- popolo di una destra anomala e anti-europea, a-costituzionale e a-fascista, sconfitto alle ultime elezioni e condannato in via definitiva per una frode fiscale gravissima e tuttora sotto processo per reati altrettanto gravi.
Con lui muore tutto. Il grande «partito dei moderati », mai nato e mai esistito. Il grande sogno della «rivoluzione liberale», mai esplicitato e mai perseguito. La grande conquista del bipolarismo, inoculato nelle vene del Paese non con dosi omeopatiche di cultura dell’alternanza ma con dosi venefiche di furore ideologico verso tutti i nemici. E alla fine la stessa democrazia, «dimezzata» e «calpestata nei suoi principi essenziali », solo perché una Corte lo ha giudicato colpevole e un ramo del Parlamento ratifica e applica quel giudizio, come la legge Severino (a suo tempo votata in massa e in letizia dal Pdl) gli impone di fare.
Non stupisce certo l’affidavitpostumo di Dominique Appleby, presentato dal Cavaliere in conferenza stampa come clamorosa «arma fine di mondo» che determinerà la «sicura revisione » del processo sui diritti tv Mediaset, mentre è solo una prevedibile e patetica “patacca” vecchia del 2007, che la Procura ha puntualmente smentito un’ora dopo. Più di tutto, nella lettera ai senatori letta da Berlusconi ai cronisti attoniti colpisce questo: il “politicamente morto” che afferra i vivi, e cerca di trascinarli con sé nel fuoco della Geenna, o quanto meno di marchiarli a sua volta con la damnatio memoriae che loro gli vogliono infliggere, e alla quale lui si vuole ad ogni costo sottrarre.
Questa incapacità di accettare, almeno una volta nella vita, le regole del gioco, le leggi dello Stato, il primato del diritto. Questa irriducibilità a riconoscere il canone occidentale, i principi del costituzionalismo, il bilanciamento dei poteri. Questa idea scellerata che nel Paese sia esistita una «guerra dei vent’anni» (che nessuno ha combattuto contro di lui, ma che lui ha combattuto contro i magistrati) e che questa «guerra» debba ora finire non con l’espiazione della pena da parte del pregiudicato, ma con la punizione inflitta ai giudici che quella pena hanno deciso, usando solo lo strumento del codice penale.
Ed è stupefacente, ma in fondo anche coerente, che ormai a dispetto di tutti i malintesi «moniti alla pacificazione» lanciati da lui medesimo e i cortesi inviti alla moderazione lanciati dal presidente della Repubblica, il Cavaliere dell’Apocalisse torni a evocare i soliti spettri di cui si nutre e ci nutre dal giorno dell’epica discesa in campo. La penosa leggenda del «cittadino esemplare» che si è battuto «per il bene del Paese» e «ha sempre pagato le tasse» (i suoi processi parlano di fondi neri per mille miliardi di vecchie lire e l’ultima condanna di una frode fiscale da 360 milioni di euro). Il «calvario» bugiardo dei «57 processi» (sono stati invece 19).
La tentazione “castale” a invocare il ripristino dell’articolo 68 della Costituzione, cioè quell’immunità parlamentare contro la quale lui stesso si scagliò ai tempi di Tangentopoli (ma che ora gli torna utile per ristabilire «una giusta distanza tra i magistrati e gli eletti del popolo»). L’ossessione psicotica e farneticante della «riforma della giustizia», per impedire che Magistratura democratica raggiunga la sua «missione » (cioè «la via giudiziaria al socialismo contro il capitalismo borghese») e che l’Anm continui a bloccare come sempre tutte le leggi «non gradite» (deve essergliene sfuggita qualcuna, visto che Berlusconi premier è riuscito a imporre alle Camere almeno 10 leggi ad personam in materia di giustizia, dalle rogatorie alla Cirielli, dal Lodo Alfano alla “riforma” Castelli).
Con tutta la buona volontà e la buona fede, non c’è proprio più nulla da salvare, in queste ultime “volontà” dettate dal Cavaliere dell’Apocalisse. E non c’è un’eredità politico-culturale da raccogliere, se non quei nient’affatto trascurabili 8 milioni di voti che ancora Berlusconi tiene in tasca. Si tratta solo di capire come e quando proverà a portarli ancora una volta nell’unico «luogo» che lui stesso sa e ama «abitare» con un’efficacia oggettiva, per quanto appannata: le urne. E si tratta solo di capire se Enrico Letta, con la sola stampellina gracile di Alfano, saprà resistere ai prossimi urti che, sul fronte opposto dal quale muove Matteo Renzi, gli arriveranno addosso dal 9 dicembre in poi. La morsa si stringe sulle Intese non più Larghe. E se per Berlusconi vale quello che Flaiano disse di Cardarelli («è il più grande poeta morente»), per questa Italia impaludata non può e non deve valere quello che ha scritto ieri il Wall Street Journal: «La stabilità del cimitero».


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