LA MODERNITÀ E IL TATTICISMO

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Letta è un riformista convinto ma «continuista». Non annuncia rotture, promette stabilità. Non fa saltare tavoli, cerca di tenerli in piedi. Tuttavia, nella sua conferenza stampa di fine d’anno, il premier, almeno a parole, prova a indicare anche a questa Italia depressa, immobile e sfiduciata uno sbocco verso la modernità.
Il discorso sulla «svolta generazionale » ha una sua forza, oggettiva e suggestiva. Evocare una nuova «leva» di leader, raccontandola come la «generazione che non ha alibi» e dunque «non può fallire», è una buona trovata. Anticipare il «patto di governo» che il trio Letta-Renzi-Alfano dovrebbe sottoscrivere a gennaio, presentandolo come un «manifesto dei quarantenni », è una formula promettente. Ma questi buoni propositi hanno un senso solo se non restano un rito esorcistico contro le resistenze del Palazzo o le intemperanze della piazza, e si traducono in una piattaforma programmatica al servizio del Paese. Finora le attese sono state tradite.

SUL fronte economico, il premier spalma sul Paese una patina di ottimismo esagerato. La Legge di stabilità appena licenziata dal Parlamento è stata una grande occasione mancata. Sostenere che l’Italia è «in fisioterapia », perché ha già imboccato la via della ripresa, è un modo per indorare la pillola ai cittadini e per non ammettere che, mentre l’America cresce già a un tasso del 4%, noi ci accontentiamo dello 0,8% e non siamo ancora entrati nemmeno in sala operatoria. È vero che nel 2013 «non abbiamo pagato l’Imu» e che il «dividendo» della stabilità ci ha fatto risparmiare quasi 6 miliardi di interessi sul debito. Ma è altrettanto vero che nel 2014 la Tasi sulla casa si pagherà di nuovo, e il calo dei tassi dipende più dai mercati finanziari e meno dai nostri meriti.
Purtroppo, nell’agenda per il prossimo anno, Letta non annuncia novità clamorose su questi punti. Ribadisce gli impegni già presi (dalla riduzione delle imposte alle misure per la crescita) e pattina senza sbilanciarsi sui terreni più scivolosi (la riforma del mercato del lavoro, il contratto unico a tutele crescenti, l’articolo 18).
Anche sul fronte delle riforme istituzionali (dalla legge elettorale alla Costituzione) l’appuntamento è stato clamorosamente mancato. È vero che sul tema si sono cimentati inutilmente i governi degli ultimi trent’anni. Ma è altrettanto vero che questa non può essere una consolazione, o peggio una giustificazione. Una Grosse Koalition all’italiana è utile solo se può far fare ai due o tre poli riuniti quello che non potrebbero mai fare se governassero divisi. E di nuovo, purtroppo, anche su questi punti Letta non può che ripetere le solite promesse (dal cambiamento del bicameralismo perfetto al superamento del proporzionale). Anche se stavolta le accompagna con due aperture significative: la prima sul dialogo con Forza Italia, la seconda sulla legge per il conflitto di interessi.
L’una e l’altra riflettono la criticità della diarchia con Renzi, e la fragilità dell’asse con Alfano. Al contrario del sindaco di Firenze, per il quale il fattore-tempo è e resta vitale, Letta punta chiaramente a far durare la legislatura fino al 2015, e a varcare le Colonne d’Ercole del semestre europeo. Ma la finestra per le elezioni anticipate a maggio è ancora aperta. Dunque il premier, per restare in sella, deve fare abbastanza da non rompere con il leader del «nuovo» Pd, ma non troppo da rompere con il leader del Nuovo Centrodestra. È un equilibrio instabile, che minaccia costantemente la tenuta dell’esecutivo e fatica a produrre risultati concreti agli occhi dell’opinione pubblica.
Per questo si coglie anche un velo di tatticismo, nella glassa con la quale Letta prova ad ammantare questo ennesimo Natale del nostro scontento. Affermare che in un solo anno l’Italia «ha recuperato trent’anni sul calendario della Repubblica », grazie a una «svolta generazionale » che ha consegnato il vertice del governo e dei due partiti di maggioranza a tre «giovani», è anche un modo da un lato per dire agli amici e ai nemici «io ci sono oggi e ci sarò domani, perché di questa nuova fase sono un protagonista e non una comparsa», e dall’altro lato per riassorbire l’ascesa di Renzi dentro un flusso storico che riguarda l’intera classe dirigente, e non solo il Giamburrasca fiorentino.
Il cambio di generazione c’è stato, ed è nei fatti. Ma da solo non basta. Leadership innovative e forti, finalmente libere dalle catene dei micro-notabili di cui parla Mauro Calise, sono fondamentali. Partiti contendibili e «secolarizzati», finalmente liberi dal retaggio degli avi di cui parla Hans Kelsen, sono altrettanto necessari. Ma perché la «svolta anagrafica» diventi anche «rivoluzione politica» serve un’assunzione di responsabilità che vada oltre gli enunciati, le conferenze di fine d’anno o le comparsate da Bruno Vespa e da Fabio Fazio, e si trasformi in azione di governo. Se questo non succede, i quarantenni avranno pur preso il potere, rottamando padri e rinnegando padrini.
Ma avranno fallito, anche loro.


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