Il mondo in un capannone, nei dormitori anche i bambini

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E più avanti, ai lati del grande capannone, quel che resta di improbabili loculi di cartongesso, due metri quadrati appena. In questo microcosmo, in queste celle di penitenza, vivono 24 ore su 24 i dannati del lavoro; cinesi clandestini, arrivati per conquistare il tesoro (30 mila euro in tre anni di tormenti) e tornare a casa con qualche speranza in più.
La Ye-Life confezioni è una delle 3 mila aziende nascoste nei mille capannoni del Macrolotto 1 periferia sud di Prato, quartiere industriale e artigiano una volta, oggi un ammasso indefinito di umanità dimenticata e strutture di lamiera, mattoni, cemento. Il capannone, 500 metri quadrati, è diviso da pareti di lamiera e cartongesso; qui il lavoro nero è invisibile. Gli operai sono almeno un centinaio. Uomini, donne con bambini. Hanno compiti differenti. Qualcuno lavora a capo chino davanti alle cucitrici, la testa che si muove al ritmo dell’utensile, la stridente nenia della macchina. I piccoli dormono nell’unico letto di una delle celle a piano terra o nei «loculi» sopraelevati ai quali si accede da una scala di lamiera. Se ne vedono una trentina, almeno. Sono tanti di più, nascosti negli angoli della fabbrica. Alloggi minuscoli, dove a volte è impossibile allargare le braccia. Bislunghi e sporchi, custodiscono la minuscola cucina con la bombola a gas, la tazza del gabinetto, un po’ d’acqua ricavata da un tubo della fabbrica (per i più fortunati) o conservata nelle taniche. I bimbi qui hanno pochi mesi oppure almeno 8 o 9 anni. Gli altri sono in Cina, dai parenti, perché i genitori non hanno tempo di guardarli. Torneranno da grandicelli, ottimi per il lavoro, e resteranno qui anche senza conoscere una parola d’italiano.
L’assessore all’Integrazione Giorgio Silli racconta di aver visto una donna incinta, seduta sul letto con gli occhi assenti, gli escrementi galleggiavano nella tazza accanto alla cucina e vermi e insetti improvvisavano una danza macabra sul letto.
Raccontano che i bambini invisibili, i figli dei clandestini, si siano inventati una tecnica di caccia. Le loro armi sono stecche di ombrelli o sottili e aguzze strisce di lamiere; le prede sono i topi. Ce ne sono ovunque, nella «fabbrica-mondo», ma preferiscono nascondersi tra le bombole del gas, tra qualche avanzo putrido. A volte attaccano.
Il lavoro e il riposo qui non hanno barriere e il tempo non si ferma mai. Si può lavorare 19 ore al giorno, per guadagnare il più possibile e tornare a casa prima. Si lavora anche con la febbre a 40, anche se l’ago della macchina ti trapassa la carne. Se stai male, però, è un problema. Non puoi morire in fabbrica. Allora intervengono i «barellieri» che ti accompagnano fuori e se sei in condizioni gravi ti lasciano davanti al pronto soccorso.
La scorsa settimana è stata trovata una donna cinese sepolta in un campo di Prato. Le indagini sono ancora in corso ma adesso qualcuno pensa che quella poveretta fosse una dannata della «fabbrica-mondo», che viveva nel microcosmo del Macrolotto 1.


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