Ilva, niente soldi per il risanamento

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Tutti i nodi, anche se len­ta­mente, stanno venendo al pet­tine. Dopo essere pas­sati per seque­stri, dis­se­que­stri, decreti legge, ricorsi, inter­cet­ta­zioni, arre­sti, avvisi di garan­zia, sen­tenze, com­mis­sa­ria­menti e quant’altro, il pro­blema dei pro­blemi per l’Ilva di Taranto è ancora lo stesso: ovvero che il più grande side­rur­gico d’Europa è una fab­brica irre­cu­pe­ra­bile da un punto di vista impian­ti­stico e che i soldi per il risa­na­mento «ambien­tale» ancora oggi sognato, rin­corso, annun­ciato e pre­an­nun­ciato, non ci sono. E chissà se mai ci saranno.

Del resto, se il gruppo Riva non ha inve­stito un euro sull’ammodernamento degli impianti dal ’95 al 2012, non è stato sol­tanto per rispon­dere alla logica del pro­fitto, stella polare del capi­ta­li­smo ita­liano. Quella scelta, fu soprat­tutto figlia di una visione dell’economia dell’acciaio a lungo respiro: Riva sapeva per­fet­ta­mente che nel corso di poco più di un decen­nio il mer­cato si sarebbe capo­volto, con la pre­po­tente entrata in scena di com­pe­ti­tor mon­diali a cui nes­suno avrebbe potuto opporre ade­guata resi­stenza (spe­cie con un impianto vec­chio e non più com­pe­ti­tivo come l’Ilva). E così è stata fatta l’unica ope­ra­zione eco­no­mi­ca­mente «razio­nale»: pro­durre il più pos­si­bile stoc­cando milioni di ton­nel­late di acciaio, in barba ad ogni regola in mate­ria di rispetto dell’ambiente e della salute di ope­rai e cit­ta­dini, con la com­pli­cità di poli­tica e sin­da­cati. Con i risul­tati che oggi tutti conosciamo.

E gio­vedì, durante l’audizione in com­mis­sione Ambiente alla Camera dei com­mis­sari Bondi e Ron­chi, tutta la dram­ma­ti­cità del momento è apparsa chiara ed ine­qui­vo­ca­bile. Del resto, come già scritto nella sen­tenza della Cas­sa­zione che ha annul­lato senza rin­vio il seque­stro di 8,1 miliardi di euro nei con­fronti del gruppo Riva emesso dal gip Todi­sco lo scorso 24 mag­gio, oltre ad essere stata una vit­to­ria legale pesan­tis­sima, rischia di tra­sfor­marsi nella spal­lata deci­siva che met­terà al tap­peto l’Ilva.

E Bondi, tutto que­sto, lo sa molto bene. Non è un caso se durante l’audizione ha dichia­rato che l’unica pos­si­bi­lità per far sì che si rea­liz­zino tutti i lavori pre­vi­sti dall’Aia sia un aumento di capi­tale che inietti quanto prima nella casse dell’azienda ingenti risorse liquide. Ope­ra­zione che dovrebbe essere garan­tita dalla pro­prietà: i Riva. «Credo sarebbe molto con­ve­niente — ha iro­niz­zato Bondi — ragio­nare su que­sto». Lo ha detto sor­ri­dendo. «Il mio è un sug­ge­ri­mento — ha pre­ci­sato — ma un test con la pro­prietà andrebbe fatto per­ché se ci fosse una rispo­sta posi­tiva, cosa che non so, miglio­re­rebbe anche l’atteggiamento delle banche».

Il ragio­na­mento è chiaro. La legge 89 del 4 ago­sto scorso che ha impo­sto il com­mis­sa­ria­mento, pre­vede che quest’ultimo duri tre anni al ter­mine dei quali l’Ilva ritorni nella gestione dei Riva (a cui è stata sot­tratta pro­prio per non aver fatto i lavori pre­vi­sti ed impo­sti dalla legge 231/2012). A tutt’oggi, nel campo della side­rur­gia ita­liana sol­tanto il gruppo lom­bardo potrebbe soste­nere un’operazione finan­zia­ria del genere. Le ban­che infatti, finan­zie­ranno sol­tanto il piano indu­striale che «deve ancora vedere la luce». Dun­que, il piano di risa­na­mento ambien­tale andrà finan­ziato con altre risorse. E l’unica strada alter­na­tiva per l’aumento di capi­tale sarebbe la ces­sione di quote azio­na­rie dell’Ilva Spa ad altri inve­sti­tori. In molti sognanno un’irrealistica nazio­na­liz­za­zione, che potrebbe avve­nire con l’intervento della Cassa depo­siti e pre­stiti: ovvero con i risparmi postali di milioni di ita­liani. O con l’aiuto della Banca euro­pea degli inve­sti­menti (Bei), che però inter­ver­rebbe sol­tanto a fronte di un futuro certo per l’azienda e che finan­zia­rebbe spe­ci­fici pro­getti per qual­che cen­ti­naio di milioni di euro.

Il discorso, dun­que, è sem­plice. Le risorse finan­zia­rie per i lavori di risa­na­mento non ci sono. E se non saranno tro­vate in tempi celeri, i lavori non si faranno.

Inol­tre, il futuro pre­oc­cupa anche per altri motivi. Il side­rur­gico pro­duce e vende acciaio meno che in pas­sato, la richie­sta del mer­cato con­ti­nua a fre­nare, gli incassi dimi­nui­scono, e se il costo delle mate­rie prime dimi­nui­sce, aumenta quello dell’energia e della manu­ten­zione degli impianti: i conti, quindi, non tor­nano. Bondi è stato chiaro: «A gen­naio non so se saremo ancora in grado di man­te­nere que­sta situa­zione». E a breve biso­gnerà fare i conti con un pro­blema ancora mag­giore. Annun­ciato da Bondi quasi fosse una minac­cia: «Nel 2014 dovremo rine­go­ziare la cassa inte­gra­zione e la soli­da­rietà per diversi sta­bi­li­menti»: a Genova per 700 lavo­ra­tori, a Taranto per ben 2.400 per­sone. L’Ilva va dun­que incon­tro ad un note­vole ridi­men­sio­na­mento di pro­du­zione ed occu­pa­zione, i cui risvolti sociali e ambien­tali saranno pesan­tis­simi. E mai più recuperabili.


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