Un anno rivoluzionario

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Per gli eventi e per i protagonisti che l’hanno caratterizzato, il 2013 non è stato un anno ordinario: in varie aree del pianeta hanno avuto luogo dei cambiamenti importanti, a volte epocali, sicuramente forieri di ulteriori sviluppi. Un filo rosso che lega i motivi per cui il 2013 passerà alla storia può essere trovato nella rivoluzione.

La prima rivoluzione è stata la scelta di Joseph Ratzinger di rinunciare al pontificato. Non si è trattato di una prima volta, ma di un gesto che non aveva precedenti nell’età contemporanea. Dietro alla perdita di vigore del corpo e dell’animo con cui Benedetto ha spiegato la sua decisione non è stato difficile per molti scorgere l’ombra di contrasti interni alla Santa Sede su alcuni temi economici e politici (scandali compresi).

Il successore di Benedetto al trono di Pietro,Jorge Mario Bergoglio, sta imponendo nei primi mesi di pontificato una duplice rivoluzione: nello stile, ricercando continuamente il contatto immediato (nel senso di “non mediato”) con il prossimo; nella sostanza geopolitica, ridando al Vaticano un ruolo internazionale di primo piano. La prima rivoluzione appare compiuta. La seconda, a giudicare dal caso della guerra di Siria, è a buon punto.


[Carta di Laura Canali tratta da “L’Iran torna in campo“]

 Dal trionfo di un’altra rivoluzione, quella islamica del 1979, l’Iran e gli Stati Uniti d’America sono stati nemici. Trentaquattro anni dopo, si intravede la possibilità che le cose possano cambiare. Nel 2013 Teheran ha chiuso la negativa parentesi di Ahmadi-Nejad eleggendo Hassan Rohani, un conservatore moderato, sostenitore di Khomeini e poi dell’attuale Guida suprema Khamenei, alla presidenza della Repubblica.

Il nuovo capo di Stato iraniano ha da subito assunto un tono più conciliante nei confronti degli Usa e della comunità internazionale, trovando orecchie attente nel suo omologo statunitense Barack Obama, che già all’inizio del suo primo mandato aveva cercato di aprire all’Iran. A fine settembre, una telefonata tra i due presidenti ha riaperto un canale diplomatico, spianando la strada all’accordo sul nucleare di novembre.

Il disgelo tra Washington e Teheran è appena iniziato e il suo esito dipenderà anche dal rispetto dell’intesa appena raggiunta (quindi, in ultima analisi, dalla rinuncia dell’Iran al programma atomico). Ma la semplice ripresa di un dialogo e l’uscita dell’Iran dalla cerchia degli Stati che l’Occidente considera paria apre nuovi scenari in Medio Oriente e oltre. Non sorprende che i due avversari dell’Iran, l’Arabia Saudita e Israele, non abbiano gradito la détente persiano-statunitense.

Il 2013 non è stato altrettanto favorevole per la rivoluzione in Siria contro il presidente Bashar al Asad. Ormai prossima al suo terzo anno, essa appare oggi più lontana da una vittoria di quanto non lo sia mai stata. La rivolta contro il regime di Damasco paga debolezze ormai note: l’ala politica è frantumata e poco o nulla influente su quella militare, a sua volta atomizzata tra ribelli più o meno secolari, più o meno islamisti e più o meno vicini a quel che rimane di al Qaida. La Siria è ormai diventata il campo di combattimento di una più vasta partita mediorientale, che vede l’Iran, Hezbollah e la Russia dalla parte di Asad e Turchia, Arabia Saudita e Qatar a sostenere anche militarmente i ribelli.

E l’Occidente, in Siria, da che parte sta? Formalmente, con i ribelli “moderati” del Consiglio Nazionale Siriano e dell’Esercito Siriano libero. In realtà, anche quest’anno ha fatto di tutto per non lasciarsi coinvolgere direttamente in un conflitto in cui l’esito desiderato (rovesciare Asad) potrebbe avere conseguenze sull’instabilità regionale molto peggiore del tragico stallo attuale.

Gli Stati Uniti prima hanno accusato davanti al mondo il dittatore siriano di aver usato armi chimiche contro la sua popolazione: un’asserzione non ancora verificata e che comunque non dovrebbe alterare significativamente il giudizio sull’indifferenza di Asad verso i diritti umani – indifferenza nota da tempo a tutti, ma mai ritenuta sufficiente a spingere per un rovesciamento del regime. Poi, resisi conto che neanche il Regno Unito li avrebbe seguiti (forse) in un attacco militare punitivo dal valore strategico inesistente, hanno trovato un modo di salvare la faccia siglando un accordo con la Russia, avallato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu e sottoscritto dallo stesso Asad.

Il patto per la distruzione dell’arsenale chimico siriano,a prescindere dalla sua implementazione, ha scongiurato l’apertura di un nuovo fronte nella guerra di Siria, ha fruttato il Nobel all’Opac e ha palesato la posizione di Obama sulla questione: sarà interesse degli Usa adoperarsi attivamente per il rovesciamento della dittatura siriano solo se e quando emergerà un’alternativa unitaria, credibile, secolare e in grado di rassicurare Israele. Forse mai, quindi.


[Carta di Laura Canali tratta da “Progetto Russia“]

La guerra di Siria ha rappresentato l’esempio più eclatante del ritorno della Russia sulla scena internazionale. Con Putin, Mosca è tornata a opporsi agli Stati Uniti su vari fronti: dalla difesa dell’alleato siriano all’asilo concesso a Edward Snowden, la talpa del Datagate. Oltre ai dossier storici come lo scudo missilistico e i diritti umani, punto sul quale la Russia quest’anno ha registrato dei passi indietro che l’amnistia pre-Soci 2014 non può cancellare. Nella tutela dell’interesse nazionale, Putin parte dall’estero vicino: basti pensare all’offensiva economico-diplomatica con cui ha convinto l’Ucraina (e in precedenza l’Armenia) a non firmare l’Accordo di associazione all’Unione Europea e a rimanere vincolata a Mosca.

Come in Siria, anche in Egitto la rivoluzione non ricorderà favorevolmente questo 2013. A luglio è emerso con chiarezza chi comanda veramente al Cairo: il golpe militare contro il primo presidente democraticamente eletto (Mohammed Morsi, della Fratellanza musulmana) non è stato il trionfo di piazza Tahrir, pure scesa massicciamente in piazza a chiedere la rinuncia di un capo di Stato desideroso di accentrare i poteri su di sé ma incapace di risolvere – tra l’altro – i problemi economici del paese. È stata piuttosto la restaurazione dello status quo ante, smosso ma non sradicato dalla ventata di elezioni degli ultimi due anni. Dalla caduta di Mubarak alla destituzione di Morsi, le briglie del potere sono in mano alle Forze armate.


[Dettaglio di una carta di Laura Canali da “Chávez-Castro, l’Antiamerica“]

Nel 2013, la rivoluzione bolivariana in Venezuela ha perso il suo leader: la scomparsa di Hugo Chávez, vinto dal cancro, ha chiuso un’era. Per oltre un decennio il presidente venezuelano è stato un protagonista indiscusso della politica mondiale, un simbolo dell’America Latina della svolta a sinistra, attenta ai bisogni delle classi più umili e capace di immaginare una politica estera finalmente slegata dai dettami degli Usa. Hugo ha concepito un ambizioso progetto geopolitico che avrebbe privato Washington del suo tradizionale ruolo egemonico, facendo del Venezuela una potenza regionale. La sua vita è giunta al termine in un momento in cui il suo progetto, già fallito sul piano internazionale, iniziava a mostrare limiti anche su quello interno. Il suo successore Nicolás Maduro raccoglie un’eredità difficile. La vittoria del fronte governativo alle elezioni comunali di dicembre è una boccata d’aria, non un assegno in bianco. Intanto, dati anche i problemi di Brasile e Argentina, il centro di gravità dell’America Latina si sta spostando verso il Pacifico.

Il principale alleato del Venezuela,la Cuba dei fratelli Castro, ha proseguito anche nel 2013 lungo un percorso (rivoluzionario, dato chi lo intraprende) di apertura all’economia capitalista. Rivoluzionario è stato anche il gesto cui abbiamo assistito durante il memoriale per Nelson Mandela: la stretta di mano tra Barack Obama e Raúl Castro. Era dal 1959 che rappresentanti dei due governi non si salutavano pubblicamente. Vedremo se alla stretta di mano seguiranno passi verso il disgelo tra Washington e L’Avana, che converrebbe a entrambi. Proprio a Cuba potrebbe essere raggiunta un’intesa per la fine del conflitto tra le Forze armate rivoluzionarie della Colombia e il governo di Bogotá.

La vera rivoluzione latinoamericana, quest’anno,è venuta dall’Uruguay, primo paese al mondo a legalizzare (e statalizzare) la produzione, la vendita e il consumo di marijuana. La decisione di Montevideo non rivoluzionerà il mercato della droga: l’Uruguay è troppo piccolo, troppo periferico e troppo “istituzionalmente pulito” rispetto alla media latinoamericana per alterare gli equilibri del narcotraffico. Ma lo Stato governato da Pepe Mujica sperimenterà un’alternativa all’approccio securitario voluto dagli Usa per combattere la diffusione degli stupefacenti in Nord America. La war on drugs finora è stata un fiasco di cui hanno fatto le spese i paesi latinoamericani, alcuni dei quali (Messico, Guatemala, Colombia) da tempo hanno messo in discussione la strategia di Washington. L’Uruguay è rivoluzionario perché va oltre le parole e propone un modello alternativo e inedito: vedremo se rimarrà un esperimento o si trasformerà in un esempio.


[Carta di Laura Canali da “Che mondo fa“, in edicola, in libreria e su iPad]

Non tutto nel 2013 è stato rivoluzione: alcune grandi questioni dell’attualità internazionale si sono evolute senza drammatici cambi di rotta.

Un anno dopo, la crisi dell’euro è ancora qui – e con lei, l’euro stesso, che dal 2014 diverrà la valuta nazionale anche in Lettonia. Il cambio di paradigma dall’austerità alla crescita, più volte annunciato, stenta a produrre i suoi effetti: la disoccupazione nell’Eurozona durante l’anno ha superato il 12%, record dall’introduzione della moneta unica.

Nel primo anno del primo mandato di Xi Jinping e del secondo mandato di Obama, i rapporti tra Usa e Cina non hanno fatto registrare grandi mutamenti. Verso fine anno, la decisione cinese di creare una zona di difesa aerea ha ravvivato le preoccupazioni dei vicini di Pechino, condivise da Washington. Sull’area incombe la mina vagante della Corea del Nord, che dopo aver condotto il terzo test nucleare della sua storia e aver minacciato ripetutamente i vicini del Sud, il Giappone e gli Usa è rimasta tranquilla fino a metà dicembre. L’eliminazione di Jang Song Thaek, zio di Kim Jong-un e uomo forte del regime fino a pochi giorni fa, e soprattutto i toni del comunicato che ne ha annunciato l’avvenuta esecuzione vogliono trasmettere il messaggio che il figlio di Kim Jong-il è saldamente al comando.

Repubblica Centrafricana, Mali (dove pure si sono tenute le elezioni parlamentari e presidenziali), Sudan e da ultimo Sud Sudan: anche nel 2013 dall’Africa non sono arrivate notizie incoraggianti. L’anno del continente nero si è chiuso simbolicamente con la morte del suo eroe più grande: l’ex presidente sudafricano Nelson Mandela.

Oltre a Mandela, nel 2013 se ne sono andati numerosi protagonisti della guerra fredda: alcuni l’hanno combattuta, come Giulio Andreotti, Margaret Thatcher, Jorge Videla. Altri l’hanno studiata, come Kenneth Waltz.

Non è possibile dare ora una valutazione definitiva su tutti gli eventi di cui si è parlato in questa puntata della rubrica. Nel 2013 si sono chiusi dei processi e ne sono stati avviati degli altri, dagli esiti incerti. Ne scopriremo la portata strada facendo. Per ora, si può essere certi di un fatto: il 2013 è stato un anno rivoluzionario.

Il 2012 è stato di transizione | Il 2011 è stato indimenticabile | Il 2010 era finito così

Per approfondire: “Che mondo fa“, il numero di Limes in edicola, in libreria e su iPad.


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