Il costo dell’Ucraina

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Matteo Tacconi, il manifesto

 In fin dei conti la sto­ria era ini­ziata per una que­stione di soldi. Le scelta di fir­mare gli incen­tivi eco­no­mici offerti dall’Europa o quella di strin­gere rap­porti ancora più ser­rati con la Rus­sia, nell’ambito di quella che sarà l’Unione eura­sia­tica, l’ambizioso pro­getto stra­te­gico del Crem­lino, non pog­giava su sole logi­che di poli­tica estera. Vik­tor Yanu­ko­vich voleva assi­cu­rarsi parec­chi quat­trini. Ser­vi­vano alle malan­date casse dello stato e a lui stesso: per tirarsi con tran­quil­lità la volata per le pre­si­den­ziali del 2015 (ora anti­ci­pate a fine mag­gio), tenere buoni gli oli­gar­chi e arric­chirsi. D’altro canto la sua pre­si­denza è stata segnata dalle sma­nie clep­to­mani del suo cer­chio magico.

Per mesi l’ex pre­si­dente ucraino ha gio­cato a poker. Andava in Europa, si diceva pronto a fir­mare gli accordi, ma non voleva che il piano del Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale, che li accom­pa­gnava, fis­sasse troppi paletti. Così facendo man­dava un mes­sag­gio ai russi: Bru­xel­les è pronta a venirmi incon­tro, voi che fate? Il gioco al rialzo, con­dotto sfac­cia­ta­mente, non solo non ha fun­zio­nato, ma è stato l’origine del bara­tro ucraino. La boc­cia­tura degli accordi con l’Ue ha sca­te­nando la pro­te­sta. I 15 miliardi di dol­lari in pre­stiti e gli sconti sul gas con­cessi da Putin a dicem­bre l’ha radi­ca­liz­zata. Dopo­di­ché con l’approvazione delle leggi «anti-protesta», mossa tat­tica scel­le­rata, Yanu­ko­vich ha dato ai nazio­na­li­sti radi­cali il pre­te­sto per sca­gliarsi in prima linea. Ed è finita come sap­piamo.
Si dà il caso che i soldi, anche a regime change in via di com­pi­mento, con­ti­nuino a essere una car­tina di tor­na­sole del pastic­cio ucraino. Con una dif­fe­renza. Adesso, con tutto quello che c’è stato nelle ultime set­ti­mane, i 15 miliardi pro­messi da Mosca non bastano. Ne ser­vono di più: 35. È la cifra snoc­cio­lata l’altro giorno dal mini­stro dell’economia Yuriy Kolo­bov, un tec­nico nomi­nato da Yanu­ko­vich nel 2012. Non è dato sapere se i nuovi padroni del paese lo cac­ce­ranno o se al con­tra­rio lo lasce­ranno al suo posto, in modo da offrire ai pre­sta­tori inter­na­zio­nali lo stesso inter­lo­cu­tore di quest’ultimo bien­nio.
Già, i pre­sta­tori. Quali? È evi­dente che Mosca non ha più inten­zione di ono­rare il pre­stito. D’altronde aveva chiuso i rubi­netti in attesa di capire la piega che lo scon­tro a Kiev avrebbe preso. E ne ha presa una che cozza vio­len­te­mente con­tro i suoi inte­ressi.
L’onere di lan­ciare un’ancora all’Ucraina rica­drà sulle spalle degli occi­den­tali. Bru­xel­les, d’intesa con Washing­ton e il Fmi, sarebbe pronta a garan­tire aiuti per sta­bi­liz­zare Kiev nel breve e nel lungo periodo. Ma la strada è tutta in salita.
Intanto la situa­zione finan­zia­ria dell’Ucraina è gra­vis­sima. A una crisi eco­no­mica già in corso, inne­scata da quella glo­bale, se n’è aggiunta una poli­tica e civile, che ha allar­gato la frat­tura sto­rica tra regioni dell’ovest e dell’est. Tre­mano gli inve­sti­tori, che ave­vano già tirato il freno a mano da prima che la rivolta anti-Yanukovich ini­ziasse. Le cifre con­fer­mano la ten­denza. Nel 2012 erano affluiti in Ucraina appena 6,4 miliardi di dol­lari, a fronte dei 49 del 2011. E chi a Kiev già aveva inve­stito ha, in alcuni casi, spo­stato altrove i capi­tali. Ma è l’andamento della moneta, la hry­v­nia, l’indicatore che desta più pre­oc­cu­pa­zione. È crol­lata ver­ti­gi­no­sa­mente. La banca cen­trale ucraina sta dando fondo alle riserve per tenerla su. Ma non sta fun­zio­nando e c’è chi parla di immi­nente sva­lu­ta­zione.
Biso­gna agire in fretta, ma a Kiev deve ancora for­marsi un governo e le trat­ta­tive non sono facili. Ognuno cala al tavolo il con­tri­buto dato alla rivo­lu­zione, e vuole riscuo­tere. La cosa infa­sti­di­sce gli occi­den­tali, che dovranno a loro volta nego­ziare per sud­di­vi­dersi le quote del sal­va­tag­gio. Se sarà dav­vero di 35 miliardi di dol­lari equi­var­rebbe a circa il 20% del Pil dell’ex repub­blica sovie­tica.
Nel frat­tempo il primo mini­stro polacco Donald Tusk ha sol­le­vato un dub­bio non insen­sato, spie­gando che c’è il rischio che il pre­stito potrebbe ser­vire a ripa­gare i debiti, tanti, che Kiev vanta con Mosca, più che a impo­stare un pro­cesso di riforme. Le riforme, appunto. L’Ucraina ne ha biso­gno, ma le ha sem­pre respinte. Il vero grande potere del paese, che è quello oli­gar­chico, non apprezza il les­sico del Fmi: con­cor­renza, com­pe­ti­zione, mer­cato, pic­cole e medie imprese. C’è da cre­dere che anche sta­volta i grandi magnati, che con­trol­lano una lar­ghis­sima parte del Pil del paese, alze­ranno un muro con­tro la pos­si­bile tera­pia d’urto, lacrime e san­gue. Che in que­sto caso, potrebbe avere un senso: spez­ze­rebbe parec­chi mono­poli. Ma non sarà facile.
Gli oli­gar­chi, mal­grado l’implosione del Par­tito delle regioni di Yanu­ko­vich, soste­nuto da molti di loro, si pre­sen­tano alla sfida per­sino raf­for­zati. In que­sti mesi hanno fatto shop­ping nel set­tore ban­ca­rio, appro­fit­tando della fuga degli isti­tuti di cre­dito occi­den­tali, che hanno sven­duto le loro con­trol­late. È il caso di Intesa San Paolo, che ha ceduto Pra­vex all’oligarca Dmy­tro Fir­tash. La com­prò a 500 milioni, l’ha ven­duta a meno di 100.



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