Status e prestigio, le ragioni forti dell’Italia militare

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Dalla caduta del muro di Ber­lino, la tran­si­zione del modello di difesa dell’Italia (al pari del sistema poli­tico) è peren­na­mente incom­piuta, rap­so­dica, con­trad­dit­to­ria. Da 20 anni ad oggi si sono alter­nati docu­menti di vario tipo (studi, dos­sier, pro­grammi, pro­po­ste di legge, ecc.) che hanno ten­tato di ridi­se­gnare il modello di difesa ita­liano sulla base delle nuove stra­te­gie della Nato — dopo la fine del bipo­la­ri­smo — e del cam­bia­mento delle rela­zioni inter­na­zio­nali del nostro paese e dei suoi impe­gni con le mis­sioni all’estero, enor­me­mente incre­men­tate a par­tire dagli anni ’90.
Per molto tempo le nostre forze armate sono state pri­gio­niere di alti livelli di buro­cra­zia, di inef­fi­cienza, di sovra­di­men­sio­na­mento fun­zio­nale, di spre­chi (anche le gera­chie delle forze armate sono una spe­cie di casta) che hanno carat­te­riz­zato un livello alto delle spese mili­tari, ten­den­zial­mente e con­cre­ta­mente in cre­scita in que­sti ultimi vent’anni. E non solo per le spese alte del per­so­nale e del fun­zio­na­mento ordi­na­rio del sistema delle Forze Armate, ma anche per una serie di inve­sti­menti nei sistemi d’arma, in alcuni casi inu­tili e sovra­di­men­sio­nati rispetto alle esi­genze: e che ser­vono, come per gli F35, solo a fare la guerra e qual­che affare a Fin­mec­ca­nica. Un esem­pio para­dig­ma­tico è quello della por­tae­rei Cavour, per la quale abbiamo speso 1 miliardo e 700 milioni di euro, rima­sta inu­ti­liz­zata e che risponde solo a ragioni di sta­tus e di pre­sti­gio nazio­nale. L’Italia non poteva non avere una por­tae­rei per non sfi­gu­rare davanti ai suoi alleati euro­pei e della Nato.
Con la legge delega 244 del 2012 di rior­dino dello stru­mento della difesa (in pra­tica uno degli ultimi prov­ve­di­menti del governo Monti, ad opera del mini­stro della Difesa, l’ammiraglio Di Paola) siamo entrati — con la suc­ces­siva ema­na­zione dei decreti attua­tivi avve­nuti in que­sta legi­sla­tura — in una fase nuova. Assi­stiamo così a un salto di qua­lità adel nostro sistema della Difesa, il cui senso è rias­sunto in uno scam­bio tra ridu­zione del per­so­nale e inve­sti­menti dei risparmi otte­nuti nei sistemi d’arma, a par­tire dagli F35, dalle fre­gate Fremm e dai som­mer­gi­bili U-212. Si parla di difesa per modo di dire, per­ché il ruolo delle nostre Forze Armate — accanto al tra­di­zio­nale ruolo di difesa della patria, da con­te­stua­liz­zare den­tro la costru­zione della casa comune euro­pea — è offen­sivo, tutto rivolto all’esterno («fuori area», in gergo) con la par­te­ci­pa­zione alle mis­sioni mili­tari inter­na­zio­nali. Che in parte, come in Libano, sono “mis­sioni di pace” e in parte — come in Iraq e in Afgha­ni­stan — sono mis­sioni di lotta al ter­ro­ri­smo inter­na­zio­nale, di con­trollo del ter­ri­to­rio e in defi­ni­tiva hanno una natura bel­lica. E il qua­dro con cui le Forze Armate si con­fron­tano è quello delle nuove minacce glo­bali — dalla lotta al ter­ro­ri­smo ai rischi deri­vanti dalle nuove aree di ten­sioni in Medio Oriente, in Africa, nell’Europa dell’Est — rispetto alle quali il ruolo dell’Italia è com­ple­ta­mente subal­terno alla Nato e agli inte­ressi ame­ri­cani, come anche in que­sto caso la vicenda degli F35 ci inca­rica di dimo­strare.
Recen­te­mente si sono con­clusi i lavori di una inda­gine cono­sci­tiva (ori­gi­nata dalle mozioni della Camera di giu­gno del 2013 sugli F35) della Com­mis­sione Difesa sui sistemi d’arma che ha sostan­zial­mente con­fer­mato la scelta del riarmo da una parte e dall’altra l’opzione della ridu­zione (ancora mode­sta) degli orga­nici, pachi­der­mici e ormai non fun­zio­nali alle nuove esi­genze delle Forze Armate ita­liane. La ten­denza è quella di una ulte­rio­rie pro­fes­sio­na­liz­za­zione della strut­tura, di sem­pre mag­giori inve­sti­menti nei sistemi d’arma, di una mag­giore inte­gra­zione nella Nato den­tro il qua­dro di inter­venti rapidi di gestione delle aree di crisi. E la cen­tra­lità con­creta della Nato fa venire meno il pro­cesso di inte­gra­zione euro­pea — anche sul piano mili­tare — in una dire­zione auto­noma e «suf­fi­ciente» con l’obiettivo della costru­zione della sicu­rezza comune con un ruolo più signi­fi­ca­tivo dell’Osce e delle Nazioni Unite.
Si trat­te­rebbe di vol­tare pagina con con­vin­zione. L’Italia potrebbe tran­quil­la­mente ridurre di un buon 20–30% le sue spese mili­tari e ridurre di almeno altri 50 mila unità gli orga­nici delle Forze Armate. Dovrebbe rinun­ciare agli F35 (aerei da guerra) e ad altri sistemi d’arma, che niente hanno a che fare con un’idea di difesa «suf­fi­ciente». Dovrebbe rinun­ciare all’interventismo mili­tare all’estero e fare la scelta con­vinta dell’Onu con una azione costante della pre­ven­zione dei con­flitti e della costru­zione della pace. Dovrebbe final­mente attuare l’articolo 11 della Costi­tu­zione. Eppure il pre­mier Renzi, che ha fatto la sua tesi di lau­rea su Gior­gio La Pira, que­ste cose dovrebbe saperle. Ma forse se l’è dimen­ti­cate da tempo.


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