I rivoluzionari di Suez

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Suez è una città di sol­dati e lavo­ra­tori. Eppure dal giorno del colpo di stato mili­tare del 3 luglio 2013, qui si respira l’aria dell’anarchia. Anche il sospetto verso gli stra­nieri sem­bra infi­nito: secondo i mili­tari, nes­sun occi­den­tale dovrebbe cono­scere i segreti del Canale, nazio­na­liz­zato dall’ex pre­si­dente Gamal Abdel Nas­ser nel 1956. E così, la poli­zia ci ferma all’ingresso di Port Taw­fiq, immenso molo civile, da dove par­tono i tra­ghetti per i pel­le­gri­naggi per La Mecca. Un poli­ziotto si spec­chia in un vetro minu­scolo men­tre ci inter­roga. In lon­ta­nanza, pesca­tori a stra­scico fanno incetta di pesci tro­pi­cali ven­duti a basso costo a grandi alle­va­menti. Il sin­da­cato dei lavo­ra­tori del porto di Suez ha occu­pato un posto in prima fila nelle rivolte di piazza Tah­rir del 2011.

Ma Suez è anche la città dove si sono svolti gli scon­tri più duri tra movi­menti rivo­lu­zio­nari, Fra­telli musul­mani e poli­zia, a due passi dalla guerra del Sinai e da Port Said. Oggi qui è stato di poli­zia: per le strade si nota una mol­ti­pli­ca­zione di agenti della Sicu­rezza di Stato (Amn el Dawla), uomini armati senza divisa pre­si­diano vie e incroci, scop­piano risse improv­vise e incontrollabili.

Ini­zia qui il nostro viag­gio tra le fab­bri­che di Suez e le richie­ste dei lavo­ra­tori in scio­pero. Nel bar al Bahr lungo il canale, notiamo il volto dise­gnato di Bas­sem Moh­sen, 23 anni, morto il 17 luglio 2013 nella mani­fe­sta­zione dei pro-Morsi in piazza Arbain. Nelle vie del cen­tro si ergono anti­che chiese, date alle fiamme e abban­do­nate, sulle mura cam­peg­giano i graf­fiti degli ultras e l’inequivocabile scritta: «Sisi uguale Israele». Spicca la voce di un bam­bino muez­zin, men­tre su un muro risalta la foto di Abdel Rah­man Sayd, insieme ad altri 3 gio­vani ultras in tra­sferta da Suez a Port Said, morti negli scon­tri del 2 feb­braio 2012 che pro­vo­ca­rono oltre set­tanta vit­time (per le con­se­guenti vio­lenze ci furono 25 morti solo a Suez).

LA RIVO­LU­ZIONE NEL «GIAR­DINO DELL’IMPOSSIBILE»

Con l’aiuto di alcuni atti­vi­sti del Par­tito alleanza socia­li­sta (Taha­luf Ish­ti­raki), entriamo nel quar­tier gene­rale dell’Amn el Dawla, com­ple­ta­mente messo in sicu­rezza da filo spi­nato. È una città nella città. Qui si trova il cen­tro della Sicu­rezza di Stato della regione di Suez, ma anche ammi­ni­stra­zioni pub­bli­che e per­sino il tea­tro cit­ta­dino. Prima del con­fine con il regno dei mili­tari, non man­cano dise­gni rivo­lu­zio­nari del noto graf­fi­taro Moham­med Saber (detto junior).

A pochi passi dall’immenso quar­tiere, la scena cam­bia radi­cal­mente. Ahmed Man­sour, ope­raio e atti­vi­sta del Par­tito dei socia­li­sti rivo­lu­zio­nari, ci accom­pa­gna in uno dei luo­ghi sim­bolo delle rivolte a Suez: ribat­tez­zato dai movi­menti «il giar­dino dell’impossibile», dove si sono svolti gli scon­tri più cruenti degli ultimi anni. «Il 28 gen­naio 2011 è stato il giorno peg­giore della mia vita», parte Ahmed. «Eser­cito, mer­ce­nari e il mini­stero dell’Interno erano con­tro di noi.

Alcuni dei Fra­telli musul­mani erano con noi, altri con­tro. Dopo poche ore si con­ta­vano 18 morti in piazza Arbain e lungo via Eser­cito», rac­conta il giovane.

TRA SCIO­PERI E OCCUPAZIONI

Ma a Suez, i veri rivo­lu­zio­nari sono lavo­ra­tori e disoc­cu­pati. Qui si con­tano i più impor­tanti sin­da­cati indi­pen­denti, i cui affi­liati si incon­trano su base quo­ti­diana. A pochi chi­lo­me­tri dal cen­tro città, si trova la Suez Cement, di pro­prietà di Ital­ce­menti, insieme alle fab­bri­che di Hel­wan e Tou­rah. Rag­giun­giamo i cemen­ti­fici della mul­ti­na­zio­nale ber­ga­ma­sca in pieno deserto. Cin­que mila sono gli ope­rai di que­sta fab­brica. «Dopo gli scio­peri del marzo 2012, qui sono tutti terrorizzati.

Cen­ti­naia di lavo­ra­tori sono stati licen­ziati, da quel momento hanno tutti paura di iscri­versi al sin­da­cato», ci spiega Yeyha, atti­vi­sta socia­li­sta. «Uno dei con­ten­ziosi aperti con il mana­ge­ment della fab­brica riguarda il paga­mento dell’elettricità», pro­se­gue. I pro­prie­tari usu­frui­scono di sconti e prezzi cal­mie­rati, pur non aven­done diritto. Eppure per i con­ti­nui black-out l’intera pro­du­zione indu­striale del paese è in ginocchio.

Uno dei sin­da­cati indi­pen­denti più attivi rag­gruppa i lavo­ra­tori del porto di Ayn Sokhna (Pla­to­nium Com­pany). Qui, durante la pre­si­denza Morsi si sono svolti tre grandi scio­peri. Ma Ser­vizi segreti, poli­zia e auto­rità por­tuale hanno dura­mente represso le con­te­sta­zioni. Gli ope­rai delle grandi indu­strie egi­ziane sono entrati in scio­pero nel gen­naio 2014 in tutto il paese, deter­mi­nando il rim­pa­sto di governo che ha costretto alle dimis­sioni del libe­rale Hazem Beblawy. Tra loro hanno incro­ciato le brac­cia i lavo­ra­tori della Suez Steel, della Sha­bin Com­pany, indu­stria tes­sile di Munu­feya, gli ope­rai della Qetan, indu­stria della lana, e i lavo­ra­tori della Miniam Saman­nad di Ghardbeya.

Non solo, le ser­rate hanno coin­volto anche la Bti­cino della città satel­lite del Cairo 10 Rama­dan e la Pirelli di Ales­san­dria. Per la crisi eco­no­mica, negli ultimi tre anni hanno chiuso oltre 1050 fab­bri­che, tra cui la Simo (che pro­du­ceva carta), la Nesha (glu­co­sio), insieme a migliaia di alber­ghi e agen­zie turi­sti­che pub­bli­che.
Gli scio­peri per chie­dere la revi­sione e l’applicazione della legge sul sala­rio minimo hanno riguar­dato anche tra­sporti pub­blici, poste, le fab­bri­che tes­sili di Mahalla, la Cera­mica Cleo­pa­tra, oltre all’intero com­parto medico-sanitario.

L’esercito, diri­gente delle prin­ci­pali fab­bri­che coin­volte nelle con­te­sta­zioni, ha subito prov­ve­duto ad arre­stare i lea­der degli scio­peri, tra loro Tarek Moham­med (atti­vi­sta di Suez, distin­tosi dopo l’approvazione della legge sui sin­da­cati indi­pen­denti voluta dal governo ad inte­rim di Essam Sha­raf nel 2011).

ELE­ZIONI E SINDACATO

Le mag­giori sigle sin­da­cali sono ora spac­cate nel soste­gno all’ex mini­stro della Difesa Abdel Fat­tah Sisi alle pre­si­den­ziali. La gover­na­tiva Fede­ra­zione sin­da­cale egi­ziana (Etuf, 3,8 milioni di iscritti) è impe­gnata atti­va­mente nella cam­pa­gna per Sisi. Invece, la Fede­ra­zione egi­ziana dei sin­da­cati indi­pen­denti (Efitu) ha assi­cu­rato che non sosterrà nes­suno dei due can­di­dati, nono­stante ciò l’ex pre­si­dente della Efitu, Kamal Abu Eita ha assi­cu­rato il suo appog­gio al nas­se­ri­sta Ham­din Sabbahi.

Più mar­cata la distanza dai due can­di­dati della Con­fe­de­ra­zione demo­cra­tica egi­ziana del lavoro (Edlc). Il suo pre­si­dente You­sri Maa­rouf è stato costretto alle dimis­sioni il 7 gen­naio scorso per il suo soste­gno incon­di­zio­nato a Sisi.

Ma la repres­sione dei movi­menti nelle fab­bri­che non si placa. Uno degli inter­venti più bru­tali ha riguar­dato la mul­ti­na­zio­nale sta­tu­ni­tense, Car­gill (in Egitto dal 1994), pro­prie­ta­ria della Natio­nal Vege­ta­ble Oil Com­pany. Le pro­te­ste, in corso da quat­tro mesi, nell’impianto di Borg al Arab sono state azzit­tite con l’uso della vio­lenza. Gli ope­rai sono stati pic­chiati e attac­cati con man­drie di cani ran­dagi. Il 90% dei lavo­ra­tori e dei sin­da­ca­li­sti della fab­brica sono stati licen­ziati. Gli ope­rai hanno denun­ciato che, durante l’occupazione, non è stato per­messo il rifor­ni­mento di cibo e acqua, men­tre l’elettricità è stata tagliata dalla dirigenza.

Il movi­mento ope­raio e sin­da­cale egi­ziano è stato disat­ti­vato dal nazio­na­li­smo di Gamal Abdel Nas­ser prima e Hosni Muba­rak poi. A Suez, hub del traf­fico marit­timo mon­diale, la repres­sione è stata par­ti­co­lar­mente dura. Negli ultimi mesi, i lavo­ra­tori della Suez Steel Com­pany hanno denun­ciato il man­cato rispetto dell’accordo sin­da­cale che aveva messo fine alle pro­te­ste sull’assistenza sani­ta­ria e la divi­sione dei pro­fitti con i dipen­denti. Il gene­rale Moham­med Shams, pro­prie­ta­rio della fab­brica locale di Cera­mica Cleo­pa­tra, ha con­vo­cato 23 sin­da­ca­li­sti nel quar­tier gene­rale dell’Amn el Dawla, minac­ciando l’intervento della poli­zia e rap­pre­sa­glie con­tro le fami­glie degli ope­rai in scio­pero se aves­sero pro­se­guito con le contestazioni.

«Nono­stante siamo stati scon­fitti, gli scio­peri alla Cleo­pa­tra sono già ripresi, non ci faremo inti­mi­dire», ci con­fida Moham­med Saleh, ope­raio che ha par­te­ci­pato all’occupazione nel gen­naio scorso. Dagli scio­peri nelle fab­bri­che e dallo spa­zio che saprà con­qui­starsi il nuovo sin­da­ca­li­smo indi­pen­dente si misu­rerà la tenuta del regime, costruito da Sisi, ma que­sta volta gli ope­rai non si fer­me­ranno di fronte a minacce e pro­messe mancate.



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