Gaza, il ritiro e l’occasione (perduta) per la pace
Iniziò con lo sbalordimento di Israele. Come era possibile? Ariel Sharon, il «falco» per eccellenza, il beniamino dei coloni, l’ex ministro dell’Edilizia che aveva sostenuto la costruzione degli insediamenti nel cuore dei territori occupati, adesso da premier era pronto a sfidare i suoi protetti e ordinare l’evacuazione di Gaza. Accadeva nel 2004. Il Paese era ancora spaventato dalla lunga ondata di attentati suicidi voluti da Hamas. E Sharon si presentava come il premier-militare, costruiva il muro a Gerusalemme e in Cisgiordania. Un tradimento. Cambiavano gli schemi della politica, nasceva un nuovo partito di centro. Alla fine vinse lui. Il 10 settembre 2005 oltre 15.000 coloni furono costretti ad abbandonare 15 insediamenti. Si chiusero fabbriche, serre agricole, postazioni militari e strade protette costruite dagli anni Settanta. I profeti di sventura che predicevano la rivolta armata dei coloni oltranzisti (Yitzhak Rabin era stato assassinato da un estremista esattamente 10 anni prima) furono smentiti dai fatti. Ci furono sommosse, è vero. Ma poco violente, più coreografiche che reali. Con i ragazzini delle colonie fiorite lungo il mare che gettavano vernice contro i soldati dai tetti delle villette e i militari che rispondevano con i getti degli idranti antisommossa mentre cercavano di consolare le ragazze in lacrime. Eppure finì male. Molto male. La mattina dell’11 settembre a prendere possesso delle macerie delle colonie distrutte non furono i poliziotti dell’Autorità Palestinese, bensì i militanti di Hamas che inneggiavano alla «vittoria della guerra santa». Un’occasione perduta. Sharon venne accusato di aver voluto un ritiro «unilaterale», senza trattare con il presidente palestinese Abu Mazen e di conseguenza «regalando» Gaza ad Hamas. Da allora la pace è più difficile. Meno israeliani credono nel ritiro dai territori occupati. E più palestinesi sono influenzati dall’Islam radicale.
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