Pd. La minoranza al bivio. «Ma no alla crisi»

Pd. La minoranza al bivio. «Ma no alla crisi»

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ROMA «È una riflessione molto sofferta». Voterà la fiducia o no, senatrice? «È una prova di forza, con cui si mandano al massacro alcuni di noi. È un ricatto alla sinistra. Ma questo è il mio governo e Renzi il mio segretario… È un grosso problema, che ancora non ho risolto». Il maldipancia dell’ex diessina Erica D’Adda va molto oltre l’influenza, è lo stesso disagio di tanti che, nell’ala sinistra del Pd, soffrono per la «delega in bianco» sul lavoro e si preparano a turarsi il naso.
Al bivio tra il far cadere il governo e lo strappare il vessillo dell’articolo 18, tutti (o quasi) sceglieranno la via meno impervia. «Decideremo, ma abbiamo la pistola alla tempia — dice Federico Fornaro, cuperliano —. Sceglieremo l’interesse del Paese». Oggi la minoranza si riunirà e deciderà la linea. Per Pippo Civati la fiducia è un «segnale di debolezza» e, sul piano politico, «un segnale di profonda rottura». Alfredo D’Attorre parla di «scelta al limite dal punto di vista costituzionale», ma lui (come Bersani) pensa che prevarrà la responsabilità. La battaglia però non è finita: «La partita si chiuderà alla Camera».
A Palazzo Chigi sentono di avere la vittoria in tasca. «Alla fine la voteranno tutti» prevedono i renziani, che pure hanno ascoltato tuoni e fulmini dalla sinistra: la fiducia è «un bavaglio», «una scelta grave», una «ferita profonda». Stefano Fassina ammonisce Renzi: «Se la delega resta in bianco è invotabile e con la fiducia ci saranno conseguenze politiche». L’ex viceministro non ha in mente la scissione, ma denuncia il «vulnus profondo alle funzioni del Parlamento» e chiama in causa il Quirinale: «La fiducia su una delega in bianco è una scelta che meriterebbe l’attenzione del presidente della Repubblica». Gli appelli di Cuperlo e Damiano sono caduti nel vuoto, la tensione è massima. Chi ha sottoscritto i sette emendamenti al testo del governo la vive come «un ricatto», visto che la blindatura spazza via tutte le proposte di riforma.
Cecilia Guerra, l’ex viceministro che ha lavorato sodo sulle «modifiche migliorative», è delusa: «Far cadere il governo non mi sembra giusto, ma siamo arrabbiati perché è mancato lo spazio per il confronto. La fiducia è una scelta assurda». Che fine faranno le proposte di modifica su voucher, controlli a distanza e demansionamento? E a cosa è servita la direzione? L’angoscia a sinistra è forte. Soffrono, più o meno in silenzio, senatori come Walter Tocci e Felice Casson, Lucrezia Ricchiuti e Maria Grazia Gatti. «Renzi ha provocato lo scontro per spianare Bersani, D’Alema e Camusso — si sfoga Corradino Mineo —. Ma io non gli spiano la strada offrendogli la mia testa da tagliare». E qui il sospetto è che Renzi abbia promesso di «spianare l’opposizione» perché teme il confronto sulla legge elettorale.
Gianni Cuperlo dice no alla logica del prendere o lasciare: «La riforma del lavoro non può essere spazzata via perché c’è un vertice europeo». Alla domanda se voteranno la fiducia, non tutti svelano le carte. «Aspettiamo — risponde Felice Casson —. Voglio vedere cosa c’è scritto nell’emendamento». Luigi Manconi ha ipotizzato lo strappo di una ventina di senatori, ma sono numeri che non trovano conferma. Eppure Lorenzo Guerini avverte: «Porre toni ultimativi come ha fatto Fassina non è utile a nessuno. In Aula tutti dovranno attenersi al principio di lealtà». Monito chiaro e severo, che Fassina prontamente ribalta giurando che si atterrà «alla lealtà verso gli elettori». E c’è un argomento, diffuso dai renziani, che fa imbufalire i malpancisti: l’idea che la fiducia li tolga dall’imbarazzo, visto che se votassero no dovrebbero poi uscire dal partito. Ragion per cui, prevedono i fedelissimi del premier, molti potrebbero essere «casualmente» assenti proprio al momento del voto.
Monica Guerzoni



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