I grandi graziati dall’Ue, rivolta dei piccoli L’esame Il rischio bocciatura Il piano

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BRUXELLES Quel che sta succedendo adesso nell’Unione Europea, lo si può raccontare con un’occhiata all’orologio: ore 11 di ieri, la Commissione Europea avverte che la Spagna, l’Italia e altri 5 Paesi «rischiano di non rispettare i loro impegni con il Patto di stabilità e crescita della Ue»; ore 13, la Spagna risponde con il suo ministro dell’economia Luis De Guindos che non adotterà nuove misure di austerità per evitare «il rischio di violazione dei limiti di deficit per il 2015».
Spiegazione diplomatica, ma neanche tanto: «Quanto già previsto nella legge finanziaria 2015, e tenendo conto che siamo un poco più ottimisti di Bruxelles riguardo alla nostra crescita economica, sarà più che sufficiente per raggiungere l’obiettivo previsto del 4,2% del Pil». Forse è il massimo che un governo possa dire apertamente. Ma la traduzione in soldoni è: noi siamo in regola, è Bruxelles a sbagliarsi sui nostri conti, in ogni caso non accetteremo imposizioni da nessuno.
Madrid non resterà probabilmente la sola a protestare, c’è malumore nel Centro-Sud dell’Europa. E pure nel Nord, cioè in Germania. Le decisioni di ieri della Commissione, sui piani di stabilità presentati dai Paesi dell’Eurozona, rischiano di scontentare molti.
Perché la verità è che Italia e Francia hanno già violato il Patto, l’una con il proprio debito pubblico astrale e il mancato pareggio di bilancio, l’altra con un deficit sforacchiato da anni: eppure, ieri, la stessa Commissione ha spiegato che a causa di «fattori politici» sono rimandate a marzo con il Belgio, per un secondo esame, e che fino ad allora non verrà presa contro di loro alcuna sanzione. Per l’Italia e per le altre nazioni, ha detto il commissario agli affari economici, Pierre Moscovici, «ogni opzione riferita al Patto di stabilità è aperta: se queste saranno usate o no, dipenderà dai vari Stati». E ancora per l’Italia, un «piccolo sforzo supplementare» potrebbe essere richiesto, vale a dire una ridotta manovra finanziaria, anche se con Roma resta «un dialogo costruttivo».
Dunque, viene concessa una sorta di «grazia» sospesa: Bruxelles menziona «circostanze eccezionali» (non cicloni o terremoti, si parla della crisi economica di tutta l’Eurozona) che giustificano le scivolate nei bilanci dei Paesi «rimandati». Ma Atene, Madrid, Lisbona, e anche Dublino (che nel frattempo ha risuscitato la propria economia) fanno qualche paragone e ricordano le ispezioni della «trojka» in casa propria, le cure cavalline di austerità imposte da Bruxelles, i licenziamenti e i prepensionamenti dettati dalla Ue.
All’estremo opposto, c’è l’altro polo di scontento, quello della Germania, che per la prima volta becca anch’essa un richiamo ad incrementare i suoi investimenti pubblici: solo poche ore fa, Angela Merkel chiedeva «un esame severo» dei bilanci, e ora il suo ministro delle finanze Wolfgang Schauble ripete che «i vincoli di bilancio europei vanno rispettati», pur riconoscendo che «bisogna mostrarsi solidali» con gli alleati che si trovano in una situazione più difficile.
I verdetti emessi dalla Commissione europea possono riassumersi così: cinque Stati (Germania, Lussemburgo, Olanda, Slovacchia e la miracolosa Irlanda) risultano in linea con il Piano di stabilità; 4 (Estonia, Lettonia, Slovenia e Finlandia) sono «largamente in linea»; e infine 7 (Italia, Francia, Belgio, Spagna, Malta, Austria, Portogallo) sono «a rischio di violazione» del Patto. Appuntamento a marzo, o forse prima.
Madrid non resterà probabilmente la sola a protestare, c’è malumore nel Centro-Sud dell’Europa. E pure nel Nord, cioè in Germania. Le decisioni di ieri della Commissione, sui piani di stabilità presentati dai Paesi dell’Eurozona, rischiano di scontentare molti.
Perché la verità è che Italia e Francia hanno già violato il Patto, l’una con il proprio debito pubblico astrale e il mancato pareggio di bilancio, l’altra con un deficit sforacchiato da anni: eppure, ieri, la stessa Commissione ha spiegato che a causa di «fattori politici» sono rimandate a marzo con il Belgio, per un secondo esame, e che fino ad allora non verrà presa contro di loro alcuna sanzione. Per l’Italia e per le altre nazioni, ha detto il commissario agli affari economici, Pierre Moscovici, «ogni opzione riferita al Patto di stabilità è aperta: se queste saranno usate o no, dipenderà dai vari Stati». E ancora per l’Italia, un «piccolo sforzo supplementare» potrebbe essere richiesto, vale a dire una ridotta manovra finanziaria, anche se con Roma resta «un dialogo costruttivo».
Dunque, viene concessa una sorta di «grazia» sospesa: Bruxelles menziona «circostanze eccezionali» (non cicloni o terremoti, si parla della crisi economica di tutta l’Eurozona) che giustificano le scivolate nei bilanci dei Paesi «rimandati». Ma Atene, Madrid, Lisbona, e anche Dublino (che nel frattempo ha risuscitato la propria economia) fanno qualche paragone e ricordano le ispezioni della «trojka» in casa propria, le cure cavalline di austerità imposte da Bruxelles, i licenziamenti e i prepensionamenti dettati dalla Ue.
All’estremo opposto, c’è l’altro polo di scontento, quello della Germania, che per la prima volta becca anch’essa un richiamo ad incrementare i suoi investimenti pubblici: solo poche ore fa, Angela Merkel chiedeva «un esame severo» dei bilanci, e ora il suo ministro delle finanze Wolfgang Schauble ripete che «i vincoli di bilancio europei vanno rispettati», pur riconoscendo che «bisogna mostrarsi solidali» con gli alleati che si trovano in una situazione più difficile.
I verdetti emessi dalla Commissione europea possono riassumersi così: cinque Stati (Germania, Lussemburgo, Olanda, Slovacchia e la miracolosa Irlanda) risultano in linea con il Piano di stabilità; 4 (Estonia, Lettonia, Slovenia e Finlandia) sono «largamente in linea»; e infine 7 (Italia, Francia, Belgio, Spagna, Malta, Austria, Portogallo) sono «a rischio di violazione» del Patto. Appuntamento a marzo, o forse prima.
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