Rana Plaza, Benetton non risarcisce

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Mahinu ha 18 anni e lavora da quando ne ha 14 come ope­raia tes­sile. Doveva aiu­tare la fami­glia per­ché suo padre era l’unico a por­tare a casa un red­dito insuf­fi­ciente. Lavo­rava al quarto piano del Rana Plaza, dove cuciva gonne e pan­ta­loni per i grandi mar­chi inter­na­zio­nali. Ci ha rac­con­tato che quella fab­brica, l’edificio della morte, era ben noto in città per­ché li potevi tro­vare lavoro se eri molto gio­vane. Per 12 ore al giorno 7 giorni su 7 Mahinu gua­da­gnava 4.200 taka, appena 43 euro al mese (men­tre il livello di sala­rio vivi­bile rac­co­man­dato dalle orga­niz­za­zioni asia­ti­che della Asia Floor Wage è pari a 259 euro). Se pen­sate che la sua fami­glia deve pagare un affitto di 2.000 taka e far fronte a spese quo­ti­diane per il cibo pari a 500 taka, i nodi ven­gono subito al pet­tine e si capi­sce in con­creto cosa signi­fica essere wor­king poors, cioè poveri nono­stante si abbia un lavoro.

Mahinu ricorda che quando lavo­rava al Rana Plaza erano scop­piati tre incendi, due nello stesso giorno. Ma non c’erano sin­da­cati in azienda e nes­suno faceva sto­rie. Si lavo­rava a testa bassa per non rischiare di per­dere il posto. E nem­meno un ispet­tore si era mai fatto vivo per con­trol­lare le con­di­zioni di lavoro. Solo alcuni stra­nieri occa­sio­nal­mente anda­vano a veri­fi­care la qua­lità dei pro­dotti ma nes­suno le ha mai rivolto una parola. Del resto, se Mahinu avesse par­lato sarebbe rima­sta a casa senza paga e senza lavoro. Invece è rima­sta a lavo­rare li, fin­ché quel palazzo non è crol­lato ucci­dendo 1.138 per­sone e feren­done più di 2 mila. Lei ha perso un dito e ripor­tato nume­rose ferite alla testa e come molte altre vit­time oggi non rie­sce più a lavo­rare, respinta in quanto disa­bile, come è emerso durante le recenti inter­vi­ste con­dotte dalla Clean Clo­thes Cam­paign in Ban­gla­desh.
Dopo il crollo del Rana Plaza molto è stato fatto per pre­ve­nire altri disa­stri, a par­tire dalle misure sulla sicu­rezza intro­dotte gra­zie allo sto­rico Accordo sulla pre­ven­zione degli incendi e sulla sicu­rezza siglato da più di 150 mar­chi inter­na­zio­nali. Ma per gli oltre 2 mila lavo­ra­tori soprav­vis­suti il risar­ci­mento è ancora uto­pia. Nel Fondo, messo a punto all’indomani del crollo gra­zie alla pres­sione inter­na­zio­nale e alla col­la­bo­ra­zione delle parti sociali e dell’Ilo, man­cano quasi 20 milioni di dol­lari per arri­vare ai 40 neces­sari a risar­cire tutte le vit­time. Men­tre mar­chi noti come Benet­ton e Robe di Kappa, per citare i prin­ci­pali ita­liani, non hanno messo nean­che un euro nel Fondo, Mahinu e le altre lot­tano ogni giorno per soprav­vi­vere in con­di­zione di grave disa­bi­lità. Se il Fondo di risar­ci­mento è stato in grado di garan­tire alle vit­time finora solo il 40% di quanto dovuto, è per­ché imprese come Benet­ton non hanno fatto la loro parte, ren­dendo impos­si­bile qua­lun­que pro­getto a lungo ter­mine ai lavo­ra­tori che hanno rischiato la vita per i loro affari.

Benet­ton ha dichia­rato di essersi impe­gnata a «lavo­rare diret­ta­mente con le per­sone col­pite dal disa­stro del Rana Plaza» ma, rifiu­tan­dosi di par­te­ci­pare al Rana Plaza Donor Trust Fund gestito dall’Ilo, ha di fatto fal­lito nel sup­por­tare le vit­time di quella tra­ge­dia, i lavo­ra­tori che hanno con­tri­buito a gene­rare i suoi pro­fitti. Al posto dei risar­ci­menti cui hanno diritto, le vit­time del Rana Plaza si ritro­vano alla mercè della bene­fi­cienza, impre­ve­di­bile, ini­qua e insuf­fi­ciente, che in realtà le con­danna ad una spi­rale di povertà per­ma­nente. Mahinu, come molti altri, ha poche spe­ranze che mar­chi come Benet­ton alla fine paghe­ranno quanto devono: «Non importa cosa pen­siamo dei risar­ci­menti, sap­piamo che non ce li daranno mai», ci ha detto. Dob­biamo fare di tutto per­ché que­sto non accada.



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