In Cina sentenza storica pro gay: è la vittoria dei «compagni»

In Cina sentenza storica pro gay: è la vittoria dei «compagni»

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Una corte di Pechino ha sta­bi­lito che l’omosessualità non è una malat­tia. Per noi, si spera, si tratta di una con­si­de­ra­zione asso­lu­ta­mente nor­male. Per i cinesi non è così, e la sen­tenza è da con­si­de­rarsi storica.

Fino al 2001 l’omosessualità in Cina era ancora inse­rita nella lista delle malat­tie men­tali (fino al 1997 era con­si­de­rata un reato). Gli omo­ses­suali non pote­vano donare il san­gue (dal 2012 le lesbi­che pos­sono, oggi i gay non ancora) e in gene­rale vive­vano una situa­zione di discri­mi­na­zione continua.

Nel 2001, per cele­brare la libe­ra­zione dal con­cetto di malat­tia men­tale, venne orga­niz­zato a Pechino il primo festi­val di cinema gay. C’era un pro­blema, ovvero l’autorizzazione da richie­dere al mini­stero della propaganda.

La parola «gay», che forse avrebbe urtato la rigida morale dei fun­zio­nari, venne allora sosti­tuita con «tong­zhi», ovvero «com­pa­gno», nell’accezione pro­pria comu­ni­sta. I solerti fun­zio­nari di fronte a quel ter­mine così orto­dosso, ovvia­mente, non obiet­ta­rono alcun­ché e il festi­val si fece. E non solo: da allora la parola cinese per indi­care «com­pa­gno», è dive­nuto sino­nimo di «gay», tanto da supe­rarne il vec­chio signi­fi­cato e imporsi come uso ormai comune in un tra­passo lin­gui­stico gustoso e deci­sa­mente iro­nico.

Oggi ormai nelle grandi città, nelle metro­poli cinesi, l’omosessualità non costi­tui­sce più qual­cosa di cui ver­go­gnarsi o da nascon­dere; non è con­si­de­rata in alcun modo un problema.

La vera insi­dia è la fami­glia: tra­di­zio­nal­mente i geni­tori – spe­cie quelli più anziani – eser­ci­tano molte pres­sioni sui figli e figlie per­ché si spo­sino pre­sto e per­ché met­tano al mondo un erede. Lo testi­mo­nia la feb­brile atti­vità nei par­chi cit­ta­dini dei geni­tori, che por­tano i cur­ri­cu­lum dei figli per com­bi­nare i matri­moni, o la più ter­ri­bile pra­tica di molti omo­ses­suali di spo­sarsi per sod­di­sfare le fami­glie, salvo poi vivere un incubo e con­se­gnare al mede­simo brutto sogno la donna che li ha sposati.

È il cosid­detto feno­meno delle homo­wi­ves, che in Cina ha numeri impo­nenti: secondo il pro­fes­sor Zhang Bei­chuan della Qing­dao Uni­ver­sity il 90 per cento degli uomini omo­ses­suali (almeno fino al 2012) si spo­se­reb­bero a causa della pres­sione a uni­for­marsi ai valori tra­di­zio­nali della famiglia.

E ci sareb­bero almeno 16 milioni di homo­wi­ves, «donne spo­sate a uomini che non le ame­ranno mai e che comin­ciano a chie­dere il divor­zio», come rac­conta ilChina Daily.

Sen­tenza sto­rica
La sen­tenza di una corte di Pechino arri­vata nei giorni nata­lizi, secondo la quale l’omosessualità non è una malat­tia men­tale e come tale non può essere curata, ha costi­tuito un risul­tato sto­rico per tutto il movi­mento Lgbt cinese.

La corte di Pechino ha inol­tre sta­bi­lito che la cli­nica che aveva pro­vato a curare l’omosessualità con ipnosi e sca­ri­che elet­tri­che, dovrà anche ricom­pen­sare il «paziente».

Una cifra irri­so­ria, circa 500 euro, ma impor­tante da un punto di vista sim­bo­lico. La noti­zia ha avuto grande enfasi sui media cinesi e occi­den­tali, per­ché si tratta di un pas­sag­gio epo­cale, che avvi­cina la Cina ai paesi più civi­liz­zati del mondo.

Yang Teng
Yang Teng, l’autore della causa con­tro la clinica

Come ripor­tato dal Wall Street Jour­nal, che aveva seguito fin dall’inizio la vicenda, il pro­ta­go­ni­sta, Yang Teng (il ricor­rente nella causa) si è detto estre­ma­mente felice. In pre­ce­denza Yang, sotto lo pseu­do­nimo di Xiao Zhen aveva rac­con­tato la sua avven­tura al quo­ti­diano bri­tan­nico: «il per­so­nale di una cli­nica nella città sud-occidentale di Chon­g­qing gli aveva detto di poter curare la sua omosessualità.

In seguito lo ha messo in uno stato di ipnosi con luce a inter­mit­tenza e lo ha sot­to­po­sto a elet­tro­shock». Nella sua sen­tenza, ha pre­ci­sato Yang, «il giu­dice ha spe­ci­fi­cato che l’omosessualità non è una malat­tia, quindi la cli­nica non ha alcuna legit­ti­mità per effet­tuare quel tipo di trattamento».

La deci­sione della Corte distret­tuale di Hai­dian, a nord di Pechino, ha dun­que messo fine a una pole­mica, dato che in pre­ce­denza i giu­dici ave­vano riman­dato la sen­tenza, dando un chiaro segno di poca atten­zione ad un argo­mento così rile­vante dal punto di vista sociale. Yang ha inol­tre spe­ci­fi­cato che il giu­dice avrebbe ordi­nato alla cli­nica «di scri­vere delle scuse per aver pro­po­sto il trat­ta­mento sulla home page del suo sito web, lascian­dole in bella vista per 48 ore». La Corte avrebbe inol­tre ordi­nato un’inchiesta per veri­fi­care se la licenza della cli­nica è valida.

Baidu e le cli­ni­che per i gay
Ma per­ché Yang si era recato nella cli­nica che lo avrebbe dovuto gua­rire dalla sua omosessualità?

Ovvia­mente, secondo la sua stessa ammis­sione, la cli­nica era stata sco­perta dalla fami­glia, desi­de­rosa di eli­mi­nare il «pro­blema» del figlio. Una volta riscon­trata l’esistenza della cli­nica Jinyu Piao­xiang di Chon­g­qing, la Gotham City cinese, non c’erano più dubbi.

E la sco­perta era avve­nuta a seguito di diverse ricer­che online circa il trat­ta­mento dell’omosessualità. Ma in tutta que­sta sto­ria c’è anche una par­ti­co­la­rità «tec­no­lo­gica». Infatti, anche il motore di ricerca Baidu è stato citato nella causa. Il giu­dice non ha sta­bi­lito multe per il motore di ricerca che in Cina ha sop­pian­tato da tempo Goo­gle, ma ha invi­tato l’azienda ad essere con­sa­pe­vole di «fare pub­bli­cità a ser­vizi tera­peu­tici dubbi».

La fami­glia di Yang, ha infatti tro­vato le infor­ma­zioni attra­verso il motore di ricerca. «Baidu rispetta la deci­sione della corte, ha detto Kai­ser Kuo, por­ta­voce dell’azienda, siamo molto lieti di vedere che giu­sti­zia è fatta e con­di­vi­diamo il parere che la tera­pia non qua­li­fi­cata debba essere rego­lata in maniera molto vigile. Spe­riamo che Yang Teng tro­verà con­forto nella sen­tenza del tribunale».

Stando a quanto hanno potuto pro­vare i gior­na­li­sti cinesi, subito dopo la sen­tenza Baidu avrebbe rimosso ogni tipo di annunci di cli­ni­che che offrono tera­pie per curare l’omosessualità. Yang ha spe­ci­fi­cato di non essere stato distur­bato dalle parole del giu­dice riguardo Baidu e la man­cata san­zione: «Abbiamo rag­giunto il nostro obiet­tivo, che era quello di sta­bi­lire che la con­ver­sione gay non è una forma legit­tima di tera­pia» e ha aggiunto di volere unirsi agli atti­vi­sti per una più gene­rale cam­pa­gna con­tro le cli­ni­che, affin­ché smet­tano di offrire quel tipo di ser­vi­zio, per sempre.

Vit­to­ria di «movi­mento»
Come spe­ci­fi­cato, la vicenda ha avuto grande enfasi anche sui media cinesi. Sina?.com ha inter­vi­stato atti­vi­sti di ong ed esperti, per capire la por­tata sto­rica della sen­tenza, per l’intero movi­mento Lgbt cinese. «Yang è stato il primo a intra­pren­dere azioni legali con­tro le tera­pie per la con­ver­sione dei gay, ha detto Hu Zhi­jun rap­pre­sen­tante della ong Pflag (Parents family and friends of lesbian and gay), la mag­gio­ranza dei gay da adesso in avanti non avrà più pro­blemi per vin­cere cause in tri­bu­nale. Le nuove gene­ra­zioni sono più corag­giose dei più anziani».

Qual­cosa si è subito mosso: un omo­ses­suale di Shen­z­hen, sud della Cina, uno dei pol­moni della fab­brica del mondo, ha citato in giu­di­zio una società locale di design che lo aveva licen­ziato dopo aver rin­ve­nuto on line un video nel quale avrebbe sco­perto il suo orien­ta­mento sessuale.

Pre­sen­tato come primo caso che coin­volge discri­mi­na­zione sul lavoro sulla base della ses­sua­lità, la causa è stata accet­tata dalla Corte del Distretto Nanshan.

«La discri­mi­na­zione con­tro la comu­nità gay resta acuta in mate­ria di occu­pa­zione e di assi­stenza sani­ta­ria», ha detto Nan Feng, un altro atti­vi­sta del mondo gay cinese di Chon­g­qing: «Alcuni che hanno rive­lato il loro orien­ta­mento ses­suale sul posto di lavoro hanno detto che non ave­vano scelta, si sono dovuti licen­ziare per­ché non riu­sci­vano a sop­por­tare il com­por­ta­mento dei loro col­le­ghi nei loro confronti».



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1 comment

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  1. attilio cece
    attilio cece 5 Gennaio, 2015, 20:12

    si dice che la clinica in oggetto abbia preso contatti con maroni per trasferire la sua sede in via bellerio……
    chissà… che voglia guarire se stesso ed i suoi amici affetti da ‘legaiolite demens’ con una terapia a base di elettroshock ???

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