Baltimora, la rivolta dei neri contro la polizia violenta “Hanno ucciso uno di noi ora scateniamo l’inferno”

Baltimora, la rivolta dei neri contro la polizia violenta “Hanno ucciso uno di noi ora scateniamo l’inferno”

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BALTIMORA. «QUESTI non protestano, rubano. Sono gruppi di criminali, vanno trattati come tali. Ma dietro queste violenze c’è un problema vero che esige la nostra attenzione». Barack Obama è teso, frustrato, dopo gli scontri di Baltimora. La questione nera è una piaga aperta, perseguita la sua presidenza. Troppe città americane scoprono di essere delle polveriere razziali in attesa della scintilla. E ancora una volta la scintilla l’ha fornita la polizia. L’ultima vittima si chiamava Freddie Gray, 25 anni, afroamericano. Arrestato il 12 aprile, deceduto il 19: gravi lesioni alla spina dorsale. I poliziotti hanno negato di averlo percosso, è in corso un’inchiesta. Dopo Michael Brown a Ferguson, dopo Eric Garner a Staten Island e tanti altri in una lista che si allunga ogni mese, anche Gray è il simbolo di un’America derelitta, abbandonata, brutalizzata.
Ma questa morte apre lacerazioni all’interno della stessa comunità afro-americana: i ragazzi contro i genitori, le gang giovanili contro tutti gli altri. Dal 19 aprile per sette giorni la protesta qui era stata civile e ordinata. Fino al funerale di Gray, lunedì mattina. E’ lunedì pomeriggio che tra gli adolescenti neri nelle scuole è girata una parola d’ordine, via social media: The Purge. Ed è cominciato il finimondo. The Purge, la purga, è il grido di combattimento che loro capiscono, titolo di un film-trash, ultra-violento, dove un black-out di 12 ore consegna una città a violenze incontrollate, senza polizia, senza Stato.
Quel che è successo a Baltimora è diverso da Ferguson perché qui tutta la classe dirigente è nera. Sindaco da cinque anni è una donna afro-americana, Stephanie Rawlings- Blake. Giovane, bella, una celebrity che ha fatto un cameo nel musical “Chicago” a Broadway, ma è anche segnata dalla violenza cronica della sua città: suo cugino è stato ucciso in casa durante una rapina. Nero è il capo della polizia, Anthony Batts, neri sono deputati e senatori che rappresentano questo collegio nella vicina Washington. E la guerra civile per le strade di Baltimora è esplosa a poche ore dal giuramento di Loretta Lynch, la prima donna nera ministro della Giustizia. Contro questa classe dirigente afro-americana ora si concentrano tante polemiche. La Rawlings-Blake è sotto processo per una frase che suona come un’ammissione d’impotenza: «Abbiamo dato spazio a quelli che volevano spaccare tutto». Il suo capo della polizia quasi conferma la tesi della latitanza delle forze dell’ordine: «Non potevamo mica usare le armi automatiche contro bande di ragazzini». Ma 20 suoi agenti sono feriti, di cui due gravi. In apparenza è l’unico bianco a far la parte dello sceriffo, il governatore del Maryland Larry Hogan, repubblicano, ha preso decisioni da stato marziale: «Sappiano i cittadini che le loro proprietà saranno protette». Sette giorni di coprifuoco, scuole chiuse, 5.000 soldati della National Guard chiamati in piazza oltre ai rinforzi di polizie giunti perfino dalla California. All’indomani delle razzìe e degli incendi, 200 arresti tra cui molti in età da scuola media.
La mia guida in questo campo di battaglia è David, che ha passato tutta la vita a West Baltimora, quello che oggi è il Ground Zero degli scontri selvaggi. «Ecco, io sono nato lì». Mi indica il portone, al 1388 West North Avenue, all’angolo di Woodrook. «Adesso non c’è più nulla, solo assi di legno inchiodati al posto di porte e finestre». Uno spettacolo desolante che può confondere: il legno compensato lo inchiodano in fretta e furia i piccoli negozianti per nascondere i danni, nei locali saccheggiati dai ragazzini 24 ore prima in questa guerra tra poveri. Ma di legno compensato erano coperte tante case già prima: abbandonate da anni, svuotate da sfratti esecutivi, in vendita senza alcun compratore. E’ lo spettacolo del degrado urbanistico, sociale, civile, nel cuore di un’America che è al sesto anno di ripresa economica. Siamo solo a due miglia dalla Renaissance Baltimore, l’area del porto, lussuosa e ambiziosa; o dalla Johns Hopkins University che attira cervelli dal mondo intero. Mentre qui a West Baltimore la disoccupazione è ancora a due cifre. «I poliziotti — dice David — lunedì hanno difeso soprattutto downtown, il centro direzionale, i palazzi del potere. Qui era- no pochi, troppo pochi». Continua il pellegrinaggio tra le rovine recenti, quelle create dalla fiammata di scontri lunedì sera. C’è un mini-supermercato 7 Eleven sulla Pennsylvania Street, porte sfondate. Un bancomat divelto, sradicato dal muro per estrarne contanti. C’è il drugstore Cvs, uno dei più martoriati dai ragazzi. J-J Liquor Store, carbonizzato dall’incendio, al punto che hanno ceduto i muri portanti. Sportsmart, negozio di articoli sportivi, dove l’orda degli adolescenti ha fatto razzìa di tutto.
«Non uno di questi ha un proprietario bianco, i veri ricchi sono altrove», dice David. La furia dei ragazzi ha distrutto i sogni dei loro genitori. Un pezzo di piccola borghesia nera è rovinata, negozi distrutti e una reputazione scesa agli inferi, un quartiere che diventerà ancora più temuto, malfamato, infrequentabile. «Quando io ero ragazzo — mi dice David — perfino gli spacciatori avevano un’etica. Certi drug dealer pagavano gli affitti delle famiglie povere, non ricordo un solo sfratto. Oggi spacciano i ragazzini delle medie. Non guardano in faccia neppure i propri genitori, figurarsi se rispettano altre autorità ».
Alla fine la vera eroina nella terribile violenza di lunedì è la mamma immortalata su YouTube, che si avventa sul figlio teen-ager, gli molla dei ceffoni in testa, lo afferra per il bavero e lo trascina via dalle proteste. «Dietro di lei si erano mossi anche altri del quartiere — dice David — come il reverendo Jamal Bryant e le sue squadre di giovani volontari ». Forze d’interposizione, i caschi blu di questa terra di nessuno. E’ scesa in campo per frenare i violenti perfino la Nation of Islam, quella che ai tempi di Malcolm X era la frangia radicale del movimento nero. E girando con David vedo le tracce di questa società civile che non vuole arrendersi: tanti abitanti del quartiere, soprattutto mamme nere, impugnano scope, spazzano i detriti degli incendi dai marciapiedi. Passeggiano a gruppi, coi loro sacchi blu dell’immondizia, un isolato alla volta vogliono riprendersi il loro quartiere.
«Ecco dov’è cominciato tutto». Seguendo un camion della spazzatura David mi porta sulla Baker Street, angolo North Mount. Qui c’è un altro negozio carbonizzato dai saccheggi. E soprattutto ci sono i “projects”, famigerati e squallidi caseggiati popolari. «Ecco, lì arrestarono Freddie Gray. E laggiù in fondo c’è il commissariato del Western District. Ma a quello non ci si avvicina, è circondato dalle autoblindo della Guardia Nazionale ». Gli elicotteri della polizia girano vorticosamente sulle nostre teste. David ricorda le proteste del 1968, che sconvolsero Baltimora dopo l’assassinio di Martin Luther King. «Avevo solo 8 anni ma come potrei dimenticare quelle giornate. Sei morti, mille negozi distrutti, non c’era un angolo della città al riparo. Oggi abbiamo un presidente nero, e il ministro di Giustizia afroamericana. Lei, Loretta Lynch, ha detto che sarà dura con i violenti. Speriamo che includa i violenti alle sue dipendenze, i poliziotti». Lo dice anche Obama: «Non possiamo ridurre una questione nazionale a un problema di polizia. Le polizie vanno addestrate con regole diverse. Ma poi ci vogliono scuole, infrastrutture, posti di lavoro».


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