Tfr in busta paga, la svolta di Renzi ad aprile è un flop
I dati della Fondazione consulenti del lavoro parlano chiaro: su circa un milione di retribuzioni esaminate nel primo mese dall’entrata in vigore della norma, solo 567 dipendenti (lo 0,0567%) hanno chiesto all’azienda l’anticipo del Tfr fino a giugno 2018. Di questi 567 solo il 10%, dunque 56 persone in tutta Italia, hanno tolto il Tfr da un fondo pensione integrativo, negli altri casi il Tfr era destinato all’Inps poiché dipendenti di aziende con più di 50 dipendenti.
La motivazione di questo rifiuto a unirsi alle vacue ricette di Renzi sono le tasse troppo alte nel 60% dei casi. L’anticipo è assoggettato a tassazione ordinaria e non a quella separata, più favorevole, prevista sulle liquidazioni di fine carriera. Per l’Osservatorio della Fondazione dei consulenti del lavoro dovrebbe essere neutro per i lavoratori con un reddito fino a 15 mila euro e aumentare progressivamente per chi ha 90 mila euro di reddito, circa 600 euro l’anno, oltre 1.800 euro in meno circa per il periodo aprile 2015-giugno 2018.
«Questo insuccesso — sostiene la Presidente del Consiglio Nazionale dei Consulenti del Lavoro Marina Calderone — è la dimostrazione che la politica ha la percezione delle esigenze del mondo del lavoro ma non è in stretto contatto con chi parla tutti i giorni con lavoratori e imprese. La bontà del provvedimento è apprezzabile, ma non la sua struttura tecnica poiché la tassazione applicata a questa misura ne ha determinato il suo insuccesso fino ad oggi».
«Avevamo preventivato una scarsa adesione — continua — Il dato non ci stupisce». Il 75% di chi ha fatto richiesta del Tfr in busta paga vive al Centro nord, il 25% al Sud. Il 43%, è impegnato nel commercio, nel terziario e nel turismo, il 18% nell’industria, il 9% nella piccola industria, il 12% all’artigianato, il 18% rientra in altre categorie. Il 50% ha un reddito di 30mila euro.
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