“ Armi al supermarket e reclutatori sul web così l’America scopre gli attentatori free-lance”

“ Armi al supermarket e reclutatori sul web così l’America scopre gli attentatori free-lance”

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Per il giornalista del “New Yorker” Adam Gopnik la strage di San Bernardino fa emergere una nuova sociologia della jihad. “Sulle armi facili il presidente Obama appare frustrato. Sa bene di non essere in grado di vincere questa battaglia con il Congresso”
NEW YORK. «LA STRAGE di San Bernardino fa emergere una dimensione nuova nella sociologia del terrorismo», dice Adam Gopnik: «L’affiliazione jihadista, magari semplicemente attraverso un paio di clic sui social network, può rappresentare un modo sbrigativo per elementi sociali emarginati, oltre che per psicopatici, di sfogare la rabbia e uccidere all’impazzata, nobilitando le loro vendette criminali. Ma attenzione: per ora è un trend tutto americano, perché in nessun altro paese, tanto meno in quelli europei, le armi sono accessibili con tanta facilità».
Gopnik è tra le firme più celebri del
New Yorker, il settimanale che dal 1925 esprime la coscienza critica dell’America più colta e impegnata. Canadese di origine e newyorkese d’adozione, 59 anni, autore di vari libri, è sempre stato in prima fila nella battaglia politica, ma anche culturale, contro quella che definisce «la follia della armi».
Facciamo un passo indietro: a suo avviso, quali sono le vere differenze tra gli attentati del venerdì nero di Parigi e la domenica del terrore in California?
«Premetto che non sono ancora chiarissimi i collegamenti con l’Is dei due attentatori di San Bernardino. Sembrano più indiretti e meno organici di quelli dei jihadisti parigini, pur con una simile ispirazione spirituale. La vera differenza resta comunque il contesto: per la strage di Parigi c’è stato bisogno di un piano coordinato e probabilmente etero-diretto per acquisire l’arsenale. Negli Stati Uniti, invece, è facile diventare un “terrorista free-lance”: basta entrare in un’armeria e comprare legalmente pistole, fucili automatici, giubbotti anti-proiettile e munizioni a go-go. Proprio come hanno fatto Syed Rizwan Farook e la moglie Tashfeen Malik».
Vede cambiare qualcosa in America dopo quest’ultima strage? Ci sono segnali politici di un ripensamento sulle armi? Di un rimorso collettivo?
«Mi piacerebbe rispondere di sì, ma purtroppo non è così. Barack Obama è apparso triste, più frustrato del solito: perché sa di non essere in grado di vincere questa battaglia con il Congresso. E i candidati alla Casa Bianca, a cominciare dal senatore repubblicano Ted Cruz, hanno approfittato del clima incandescente solo per portare acqua al loro mulino, non per voltare pagina sulla piaga delle armi».
Ma di che cosa c’è bisogno perché il paese si ravveda? Di una strage ancor più mostruosa?
«Temo che ci sia bisogno solo del tempo necessario perché una nuova generazione di americani imponga un cambiamento politico, una maggioranza democratica al Senato e una visione diversa del problema, così come è successo su altri temi che hanno spaccato la società, come imatrimoni gay».
Sono considerazioni molto pessimiste, le sue.
«Forse sì, ma non rinuncerò alla battaglia. E non voglio neanche sottovalutare alcuni segnali incoraggianti. A livello locale, ad esempio, si muove qualcosa: molti comuni stanno imponendo vincoli crescenti alla diffusione delle armi. Ovviamente ciò non impedisce a chi vuole condurre azioni violente di procurarsi altrove le armi, ma contribuisce a cambiare il clima. Mi ha colpito anche il tabloid Daily News che ha schiaffato in prima pagina, assieme alla foto di Farook e altri terroristi, quella di Wayne LaPierre, il capo della Nra, la lobby delle armi, accusandolo di una jihad contro gli americani in nome del profitto».


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